Si definisce “pay to play” (traducibile letteralmente con “pagare per suonare”) quella pratica secondo cui una band o un artista paga una certa cifra per poter suonare prima di una band molto conosciuta, oppure in festival e locali prestigiosi. Il tutto in nome della tanto agognata “visibilità” che i nostri tempi social hanno elevato a valuta ufficiale della musica.
Il mondo del lavoro nella musica : vicini ad una nuova era ?
Il mondo del lavoro è in un periodo di grande subbuglio ed anche i lavoratori nel campo musicale non sono estranei alle difficoltà professionali. Il mercato del lavoro risente di un momento di grande cambiamento, dove immaginare il protrarsi delle logiche con cui si era soliti ragionare anni fa è totalmente impensabile. Per fortuna o purtroppo.
Un sempre più crescente numero di giovani musicisti si affaccia al mondo del professionismo, un mondo che da diverso tempo registra segni di visibile crisi. Alle difficoltà già note da tempo dei pagamenti delle prestazioni e del trovare ingaggi, si aggiungono la ormai prossima scomparsa di alcune figure che mediavano tra artisti e approvvigionamento d’ingaggi vari. Figure quali impresari (o promoter), talent scout, etichette discografiche ed altri ruoli preposti a servizio dei musicisti per la loro promozione e scoperta, sono sempre più rare e relegate unicamente ai vertici più alti dell’industria discografica, lasciando emergenti e molti professionisti a dover fare tutto per conto proprio.
Il musicista giovane che attualmente intende intraprendere un percorso professionale deve avere molte più competenze rispetto a quelle che venivano richieste precedentemente, dove ad un musicista veniva richiesto “semplicemente” di fare musica al meglio possibile e sviluppare la propria arte. Ora il musicista moderno oltre a saper suonare uno strumento e desiderare ardentemente di voler intraprendere seriamente questa carriera, deve sapere le lingue, essere un abile comunicatore sui social con fotografie, contenuti e video più qualitativi possibili, ed avere competenze imprenditoriali e gestionali piuttosto avanzate. Senza queste abilità, le possibilità di riuscire in questo lavoro sono piuttosto assottigliate (ma non del tutto impossibili).
C’era una volta la “gavetta”
Un tempo questo passo era la famosa “gavetta” da cui bisognava passare. Ora i tempi frenetici, gli esempi dati dai mass media e l’informazione diffusa hanno quasi messo ulteriore fretta alla volontà di affermarsi da parte dei giovani musicisti. Insomma i tempi quasi impongono di raggiungere il successo il prima possibile in un campo da tempo in forte crisi. Purtroppo l’industria musicale da tempo in ginocchio visti i mancati incassi derivanti da dischi che non si vendono e concerti sempre più spesso lontani dal sold out, hanno da tempo iniziato a volgere lo sguardo verso artisti che si potessero esibire a costi inferiori (se non addirittura a titolo gratuito) in cambio della famosa “visibilità“.
Questo comportamento ha innescato un autentico circolo vizioso che ha minato e gravemente danneggiato tutte le categorie dei musicisti, ed in particolar modo i professionisti già attivi da tempo che hanno dovuto passare per la famosa “gavetta”. Un autentico “strappo generazione” che viaggia di pari passo al concetto di “concorrenza sleale”, popolando nel tempo locali, festival e manifestazioni musicali di giovani ragazzi animati da una fortissima spinta artistica e volontà di volersi esibire, ma dalla qualità che il più delle volte era di molto lontana da quella dei professionisti, allontanando così alcuni amanti della musica dal vivo e alimentando il circolo vizioso sopra descritto.
Parzialmente gli strumenti offerti dalla rete hanno dato a molti giovani musicisti la possibilità di ottenere la famosa “visibilità”, ma il più delle volte questi “fenomeni del web” difficilmente hanno raggiunto il pieno consenso senza il passaggio sui palchi più prestigiosi. Quindi, come fare allora ad arrivare a questi palchi prestigiosi ?
Alcuni (fortunatamente) con duro lavoro, perseveranza ed una buona dose di porte chiuse in faccia, altri evitando tutto ciò, ma bisogna ricordare che “l’arte celebra l’uomo, non lo manipola” come diceva Keith Haring.
Un fenomeno che parte da lontano
Comunemente si pensa che questo fenomeno sia prettamente italiano o europeo e che si sia affermato solo negli ultimi anni. Entrambe le convinzioni sono errate.
Il fenomeno inizia negli anni ’80a Los Angeles: siamo nel 1985, la violenza è particolarmente diffusa nella città californiana e le ordinanze restrittive hanno ormai spopolato i locali notturni. Per recuperare almeno in parte i mancati profitti, alcuni promoter pensano allora d’iniziare ad affittare i locali direttamente alle band che desiderano esibirsi. I cosiddetti affitti di uno” slot” (uno spazio nella serata) possono andare dai 500 fino ai 1800 dollari a serata, per un concerto della durata di appena 45 minuti. Uno dei principali club ad esercitare questa pratica è il famosissimo e storico locale Gazzarri’s: qui, per mezzo di quello che ormai possiamo ufficialmente chiamare “pay to play”, muovono i primi passi gruppi del calibro di Poison, Mötley Crüe, Van Halen (sebbene in un’intervista rilasciata anni dopo il gruppo smentirà un proprio coinvolgimento) e Guns N’ Roses.
Solo a distanza di pochi anni, nel 1989, nascerà il comitato RAPP (“Rockers Against Pay to Play”) proprio come forma di rappresaglia contro il diffondersi del fenomeno. Il Rapp tentò di portare avanti campagne di boicottaggio contro quei locali che erano soliti portare avanti la pratica ma, dopo qualche prima sporadica manifestazione, non si ebbe traccia di una effettiva prosecuzione delle proteste.
In un’intervista del 1989 per il mensile americano Spin, il batterista dei Gung Ho! descrivevacosì la situazione musicale a Los Angeles in quegli anni: “Ci venne detto che per 960 dollari ci avrebbero dato uno slot ed un pasto prima dello spettacolo. Ci dissero che anche i The Zeros si sarebbero esibiti – una grande attrazione a Hollywood. Il sistema funziona che ti spingono ad acquistare 120 biglietti da rivendere al costo di 7 dollari a biglietto; se riesci a rivenderli tutti, allora puoi riavere indietro i tuoi soldi. Il che è quasi impossibile in questa città. Tutti pagano molti soldi – non mi interessa quello che dicono, nessuno arriva a vendere tutti i propri biglietti, a meno che non siano scritturati e l’etichetta se ne faccia carico per te. Alla fine, quella volta arrivammo alla data dello spettacolo che non ci fu la cena ed i The Zeros non erano nemmeno presenti. Dopo questa esperienza aderimmo al RAPP e per questo finimmo nella lista nera di diversi locali”.
Il “pay to play” è ancora oggi largamente praticato in terra americana e si è diffuso in tutto il mondo, pur continuando a dividere pubblico e addetti ai lavori. La band inglese Manic Street Peachers nella propria biografia “Nailed to history” ammette di aver preso parte a diversi eventi pay to play ai propri esordi; come riportano alcune cronache (in primis il libro biografico “Watch you bleed”), anche i primi Guns ‘n’ Roses erano attivi per mezzo di questa pratica. Di opposta fazione erano invece i Nirvana, che agli inizi della loro carriera avevano composto una canzone dal titolo “Pay to play” (successivamente rinominata “Stay away”), al pari di della punk band Cringer con la loro “Pay to play” del 1991, entrambe scritte per denunciare e protestare contro il fenomeno. Tra i principali critici di questo sistema ci fu anche Frank Zappa, il quale si rifiutò sempre di pagare non solo i locali dal vivo ma anche le principali radio per trasmettere i propri brani in heavy rotation – su questo fenomeno chiamato payola torneremo più avanti.
Nello stesso periodo in cui prendeva piede a Los Angeles, il pay to play nasceva persino in Giappone, come riportato dal libro “Performing in Japan” di Duane Levi, diffondendosi sempre di più nel corso degli anni ’90 nonostante la grande recessione economica in cui versava il paese. Ad oggi, il pay to play è una delle pratiche più usate dagli artisti locali per suonare nel paese, tanto che è stato coniato il termine “noruma” proprio per indicare la richiesta da parte di un locale di un numero minimo di prenotazioni e biglietti venduti per far esibire una band.
In Italia questo fenomeno è arrivato verso la fine degli anni ’80, con una fortissima impennata ed in costante crescita registrata negli ultimi 10 anni con l’avvento della profonda crisi e rinnovamento del settore. Uno dei motivi che hanno facilitato l’arrivo del pay to play in Italia è ascrivibile al nascere dei primi movimenti punk e metal nelle principali città della penisola. Difatti pur essendoci folte schiere di appassionati del genere, non vi erano ancora locali, spazi e rassegne che ospitassero questa nascente forma musicale. Diversi gruppi nazionali si trovarono costretti ad affittare spazi al fine di potersi esibire in eventi caratterizzati da un forte spirito di appartenenza ad una scena bistrattata dal resto della musica. A Roma ad esempio uno dei teatri più affittati dai primi musicisti metal era il Teatro Mongiovino. Anche in ambito metal, comunque, in tanti si Tra opposero a questo sistema: ad esempio in tempi recenti è stata fondata la “TMA Turin metal association“, un’associazione di gruppi metal torinesi che si pone come “risorsa e un punto di riferimento per tutte le band che si schierano contro il cosiddetto Pay to Play e contro le agenzie che stanno togliendo spazio a tutte le band che non pagano per avere i loro “servizi”.
Attenzione però a non incappare in un fraintendimento facile. Non bisogna circoscrivere la pratica ad un solo genere musicale, in quanto il pay to play è diffuso in ogni genere musicale e si è sviluppato sotto diverse forme,che ora andremo a vedere.
Cos’è il “pay to play” ? Le 5 pratiche
Le aperture ai gruppi famosi
Questo argomento è uno dei più controversi e più dibattuti. Vi è mai capitato di vedere un cartellone dove veniva pubblicizzato un nome altisonante, un gruppo spalla mediamente conosciuto e sotto una folta schiera di gruppi perlopiù sconosciuti ? Molto spesso (fortunatamente non sempre) questi gruppi sono presenti per aver pagato quello spazio (o slot come si dice in gergo). In precedenza, negli anni passati, lo spazio delle aperture era riservato a gruppi nazionali nell’intento di farli crescere a fianco di gruppi più rodati (obbiettivo dichiarato), ma sopratutto di richiamare fan locali al concerto (motivo più plausibile), il tutto venendo comunque retribuiti. Il fenomeno delle famose “aperture ai gruppi famosi” si è sviluppato in maniera molto importante nel campo metal – come abbiamo visto, ma ad oggi è pratica diffusa in tutti i campi musicali dal pop al jazz.
Quanta gente mi porti ?
Usanza sempre più tristemente diffusa, specialmente nei locali delle grandi città, è quella di concedere uno spazio a patto che il gruppo assicuri un certo pubblico, acquistando un determinato numero di prenotazioni o biglietti da rivendere a loro volta. Anche questa pratica nasce a Los Angeles, dove è a tutt’oggi ancora molto presente specialmente nei locali sul Sunset Strip. Questo mezzo di promozione viene citato anche da Nic Adler (proprietario del night Roxy Theather sul Sunset Strip) nel corso di un’intervista per il libro “The great music city”, dove a sua parziale discolpa afferma: “Se un gruppo paga 800 dollari e quando il sipario viene su non c’è nessuno tra il pubblico, non voglio essere pagato” – E ci mancherebbe pure, aggiungo io.
A titolo del tutto personale, reputo questa usanza -se possibile- ancora più “barbara” in quanto trasforma i musicisti in autentici “accalappiatori” di pubblico, costringendoli di fatto nei giorni in prossimità all’evento ad investire più tempo all’intercettare persone invece che a preparare la performance artistica. Insomma, prima il business ed in secondo luogo l’espressione della propria arte.
Percentuali sulle sostituzioni
Non esistono fatti accertati e non vi è alcuna conferma alla luce del sole, ma tra gli addetti ai lavori echeggiano voci che strizzano l’occhio a questa pratica: poniamo il caso che un musicista sia impegnato contemporaneamente in più tour o impegni lavorativi e non riesca ad essere presente ad una stessa data in contemporanea. In quel caso, manda un sostituto al suo posto. Ebbene, pare che a volte il sostituto – molto spesso qualche giovane allievo agli inizi della carriera – debba cedere una percentuale del suo ingaggio alla persona che è andato a sostituire. Tale pratica sembrerebbe diffusa in ogni campo musicale e moralmente accettata, anche se si tratta a tutti gli effetti di pagare per suonare. Per dovere di cronaca, sottolineo che nessun professionista ha mai confermato questo fatto.
Passaggi in radio
E’ tra le formule più antiche di pay to play. Negli States prende il nome di “payola” e consiste nel pagamento (o per meglio dire “corruzione”) di un DJ o di un direttore radiofonico da parte di etichette discografiche o artisti stessi in cambio della messa in onda dei brani da loro prodotti. Questa pratica èillegale ed il primo scandalo avvenne nel 1960, quando un allora famoso DJ statunitense venne incriminato per aver accettato $2.500 da una società di edizioni, giustificando tale somma come premio di gratitudine che non lo avrebbe minimamente influenzato nella programmazione. Il dj pagò la cauzione, ma lo scandalo distrusse tanto la sua carriera quanto quella di molti altri DJ di rock & roll.
Nel 2002 un senatore americano dichiarò di voler metter mano alla legge che impediva questo fenomeno perché la riteneva troppo antiquata e lontana dai tempi, sottolineando come negli anni molte etichette ed artisti fossero riusciti ad evitare le sanzioni previste attraverso un escamotage: segnare a bilancio una serie di entrate sospette sotto la voce di introiti “non tradizionali”. La legge è però ad oggi ancora oggetto di dibattito. In Italia non vi è una regolamentazione precisa sull’argomento, relegando il tutto alle tematiche di “pubblicità occulta“; non sono mai stati registrati ufficialmente scandali similari a quello accorso negli States nel 1960.
Comprare like e visualizzazioni su Internet
Nella società attuale l’apparenza è tutto. Il mondo musicale non è estraneo da questa logica che pare imperante. Di conseguenza si corre spesso a valutazioni affrettate quando vediamo artisti dai grandi numeri online: il fatto che possano vantare numerosi like sulle piattaforme social e alti numeri di visualizzazioni su Youtube, ci fa sembrare il loro successo un argomento a testimonianza della loro validità.
Ma quei numeri che ci paiono altissimi potrebbero essere “gonfiati” da società che chiedono soldi in cambio di followers e likes. Tale pratica è legale e molto diffusa in ogni universo professionale non solo musicale. Youtube da molto tempo si batte per arginare questo fenomeno, ma pare ancora molto lontano da una soluzione definitiva per terminare la compravendita di visualizzazioni. Difatti il florido mercato della “visibilità” si è molto evoluto nel tempo e pare sempre più difficile capire le interazioni reali e quelle false.
❌ Perchè è un pessimo investimento e svilisce la tua arte
La questione morale ed etica. La musica è un lavoro e come tale dev’essere remunerato. Pagare per lavorare rappresenta un ossimoro pericoloso che, altrettanto pericolosamente, va ad allargare la forchetta tra musicisti ricchi ma di scarso talento e musicisti talentuosi ma poveri. Insomma il classico concetto “per fare i soldi devi avere i soldi“.
Se si spera di suonare in apertura ad artisti di prestigio allo scopo di far ascoltare la propria musica a quegli stessi musicisti che calcheranno il palco dopo di te, ci si imbatterà in una dura realtà: bisogna considerare che difficilmente calcherete il palco davanti ai vostri idoli, se non altro per una meta questione di orari. Difatti, se le vostre esibizioni sono nel pomeriggio, il più delle volte gli artisti saranno impegnati in interviste e attività promozionali o più semplicemente si staranno rilassando in albergo o facendo i turisti per la città. Se si pensa di fare colpo sfruttando il grande pubblico, molto spesso il grosso dei supporter arriva all’approssimarsi dell’inizio del gruppo principale e non sempre quelli che arrivano all’apertura dei cancelli sono ben disposti ad ascoltare altri gruppi (ricordiamo la cattiva abitudine di molti fan di contestare i gruppi di supporto lanciando sul palco oggetti).
Se nell’ambiente si sparge la voce che suoni pagando, diventa molto difficile togliersi tale etichetta di dosso, sia nel circuito dei festival (che continueranno a chiamarti solo dietro pagamento), sia nella cerchia degli altri professionisti, dato che il più delle volte guardano di pessimo occhio chi aderisce al pay to play
Se è vero che i musicisti presenti in cartellone con il pay to play vengono filtrati e selezionati in origine, è pur vero che si incorre nel rischio di offrire uno spettacolo non equiparabile a quello di artisti che arrivano sui grandi palchi esclusivamente per i propri meriti artistici. La minor qualità di alcuni spettacoli ha portato nel corso degli anni una sempre più diffusa disaffezione verso alcuni festival o manifestazioni musicali, nei quali il pay to play è stato eccessivamente marcato
Se non si ha una strategia ben consolidata, basi solide per affrontare il ritorno di pubblico, un progetto artistico definito, il riscontro che otterrai con il pay to play sarà un boomerang più dannoso che altro
✔ Perché è un investimento e non ci si deve sentire sviliti
Siamo onesti intellettualmente: con il Pay to Play in realtà non si sta pagando il diritto di suonare o un servizio di booking, si sta pagando un servizio di promozione. Si tratta di pagare per la possibilità di usufruire del brand, del pubblico e della notorietà che un altro artista si è costruito nell’arco di anni; è in buona sostanza una sorta di servizio di influencer marketing (un tipo di marketing molto diffuso sui social in cui l’attenzione è posta sulle persone influenti), ma dal vivo. E’ in fondo l’ennesima manifestazione di un mondo agguerrito e pronta alla competizione, dove ogni mezzo è lecito.
Una domanda che ogni musicista si deve fare quando gli viene proposto uno “slot” è: “mi conviene ?”. Il pay to play conviene economicamente quando l’investimento è ben calcolato, cioè quando ci si trova a spendere in maniera proporzionale al ritorno che si avrà dall’occasione ottenuta (ad esempio in termini di merchadising, vendite cd ed effettivo net-working)
Siamo in un contesto di “autogestione” del musicista, dove egli stesso deve esercitare anche le funzioni un tempo proprie delle “defunte” figure del manager, del promoter e delle etichette discografiche; se una volta un’etichetta faceva un investimento per dare visibilità ad un proprio artista, perché oggi non può farlo direttamente quello stesso artista?
Le opinioni dei musicisti
(in ordine alfabetico)
Emiliano Cantiano (Noumeno, Metallari animati, Shores of null)
” Il Pay to play è uno degli argomenti che negli ultimi anni ha diviso la scena musicale italiana, tra chi ne è a favore e chi lo ostacola con tutte le sue forze. Io la vedo così, e per rendere il pensiero il più chiaro e pacifico possibile suddividerò la mia risposta in vari punti, punti che vogliono essere dei semplici e sinceri consigli, nulla di più.
1 – Se decidete di mettere su una band, e il vostro scopo non è quello di farne un semplice hobby, per prima cosa, passate molto tempo in sala prove e a casa a comporre, siate estremamente critici con il vostro operato e non accontentavi mai, anzi, cercate sempre di dare ad ogni singolo brano tutte le sfumature necessarie per rendere il prodotto finale, PROFESSIONALE. Dopodiché rivolgetevi ad uno studio di registrazione come si deve per dare un volto magnifico alla vostra opera.
2 – Fate molta gavetta, suonate in tutte le situazioni possibili e cercate di dare e essere sempre al meglio. Non conta quanta gente ci sia sotto al palco, se il locale è di piccole, medie o grandi dimensioni, se l’impianto è in stile Wacken Open Air o Sagra Della Ciabatta Infradito, siete e sarete sempre e solo voi a fare la differenza, e per farla dovete studiare il vostro strumento, suonare tanto in sala prove e cercare la massima sinergia con ogni membro della band, questo per sviluppare un ottimale groove di insieme.
3 – Una volta portati a termine il punto uno e il punto due, iniziate a dedicarvi seriamente a quella che sarà l’immagine della band, e fatelo nella miglior maniera possibile (questo ovviamente dipende anche dalle vostre possibilità economiche). Quindi evitate l’amico “aggratise” che fa le foto o i video, ma cercate dei veri e onesti professionisti del settore, idem per la promozione (ufficio stampa). Informatevi sempre, parlate con band più “anziane” e esperte di voi e non fermatevi mai davanti al primo parere.
4 – Vi starete domando “ma tutto questi cosa diamine ha a che fare con il pay to play? Emiliano ha fuso il cervello?” La risposta è NO, non sono impazzito, vi do questi consigli perché prima di decidere di utilizzare il pay to play, ogni band dovrebbe prima lavorare sulla creazione di un prodotto PROFESSIONALE, cosa che di suo è già un grosso investimento.
5 – Visto che ho concluso parlando di investimenti, passiamo ora al Pay To Play.
Prendiamo in esame l’idea di fare un tour europeo di almeno 20 date, il tour in questione si farà con un tour bus e ci sarà una crew al seguito (tour manager, fonico, ecc…). Tutte queste cose hanno un costo, costo che tutte le band dovranno sostenere. Ovviamente la band headliner avrà un cachet tutte le sere che sicuramente coprirà le spese e non solo, le band che faranno da preheadliner avranno un cachet che magari coprirà solo quella spesa, e poi c’è la band di apertura che deve pagare la sua parte, ma non avrà un cachet. Perché non avrà un cachet? Perché la band in questione non è conosciuta fuori dalla sua città, e nessun promoter europeo la farebbe mai suonare, non perché la band non sia valida, ma perché la band non genera alcuna domanda. In questo caso, il pay to play diventa un investimento che potrebbe rivelarsi vincente se lo slot in questione è azzeccato. Per essere azzeccato, lo slot deve essere in linea con il genere proposto dalla band, questo vi permetterà di suonare tutte le sere davanti a un pubblico che ascolta esattamente quella che è la vostra proposta. In questo modo, vendendo del merchandise potrete coprire alcune spese, se sarete attenti tornerete a casa con dei contatti, ci saranno dei live report che parleranno di voi, i promoter e i gestori dei locali faranno la vostra conoscenza. Se ci pensate, è un po come aprirsi un negozio : fai un mutuo, acquisti mobili e macchinari, paghi la promozione per cercare dei clienti… In pratica stai pagando per avviare la tua attività. Questo secondo me è il “Pay To Play” inteso come formula di investimento. Il Pay To Play sbagliato invece è quello gestito totalmente a caso e a discapito di persone inesperte. Faccio un breve esempio, vendere uno slot di apertura in situazioni nelle quali la band che paga suonerà davanti a 10 persone subito dopo l’apertura delle porte è una truffa, una truffa consapevole, perché ok essere una band inesperta, ma oggi sappiamo tutti quali sono gli orari buoni per suonare e quali no, specialmente in Italia. Concludo dicendo che non sono contrario nè a favore del Pay To Play, sarebbe stupendo vivere in un contesto nel quale le nostre fatiche e il nostro lavoro vengono pagati il giusto, ma se guardiamo in faccia la realtà la situazione è ben diversa. Quindi facciamo sempre attenzione al tipo di investimento che vogliamo fare, analizziamo tutto e cerchiamo di capire se ne vale veramente la pena. Queste sono le mie opinioni e consigli a riguardo, spero possano esservi di aiuto e ribadisco, non voglio insegnare niente a nessuno, voglio solo dare una mano con quelle conoscenze che ho in merito a questo argomento.”
“Il fenomeno del Pay to Play è antico come il baratto, ma a differenza di esso in cambio non ti torna nulla se non fumo negli occhi. Tale pratica si sta poi diffondendo sempre più a macchia d’olio, paradossalmente e soprattutto negli ambienti underground dove c’è totale mancanza di fondi da parte delle povere band già impegnate a spendere i loro soldi in strumentazione, aggiornamenti, studi di registrazione etc. Si tende ad accettarlo senza capire che non è il proprio nome in minuscolo in mezzo ad altre decine di band che farà la differenza alla lunga. Personalmente con Aborym facciamo parte della categoria di quelli che suonano pochissimo per scelta e quelle cose che si andranno a fare sono centellinate e mirate a lasciare il segno a livello di visibilità e soddisfazione personale, ci deve essere assolutamente un cachet degno e non accettiamo in nessun modo qualsiasi proposta basta che si suoni, partendo dalla scelta dell’etichetta arrivando al booking management. I nostri soldi (già pochi) preferiamo investirli in strumentazione per l’allestimento del nostro studio personale, in modo da essere in tutto e per tutto autosufficienti e liberi di auto produrre il nostro materiale. Siamo della scuola che l’importante è fare grandi dischi, perché sono quelli che resteranno nel tempo. Il concerto è si fondamentale … ma finchè ci sarà gente disposta a pagare per degli slot si andrà solo a mercificare il lato artistico e la dignità del musicista arricchendo i venditori di fumo. Per carità ognuno è libero di fare le proprie scelte, ma a mio avviso le stesse vanno fatte con intelligenza e altresì spero vivamente che le band inizino a capire che è molto più importante la libertà, rispetto ad una locandina pubblicata sui social network”
“E’giusto che un artista investa oltre alle proprie energie anche risorse economiche, come nella formazione -ciò lo renderà più sicuro dei propri mezzi-, nella strumentazione -è importante realizzare e definire la propria idea o il proprio suono- ed in una progettazione musicale e artistica, realizzando un prodotto discografico o audiovisivo. Detto questo penso che investire per poter esprimere le proprie capacità in una location “blasonata” piuttosto che un’altra, essere selezionati e giudicati da “fantomatici” esperti del settore o trattare con la moneta di scambio della “visibilità” a tutti i costi, alla fine nuoce al diritto stesso di esprimersi dell’artista e all’economia del settore artistico“
” E’ una politica che esiste da sempre. A livello imprenditoriale è senz’altro una scelta rischiosa che spesso porta la band in questione in perdita. Secondariamente dipende anche dal discorso che la band vuole fare; tante volte si tratta di un investimento con ritorno a lunga scadenza. In special modo se uno vuole investire nella carriera e nella crescita della band, le spese da sostenere (di qualsivoglia tipo) ci sono sempre. Personalmente non sono a favore di questa pratica e per come la vedo io già suonare senza essere pagati rappresenta un investimento, solo che mi sembra più sensato. A mio avviso sarebbe più sensato proporre dei live con dei pacchetti più appetibili e magari un’apertura locale anzichè come succede ora, con un nome grosso e 3 aperture locali che hanno pagato per essere presenti. Da professionista del settore, trovo il pay to play al pari di “pagare per lavorare”, anche se nel caso delle band emergenti vale più come comprare uno spazio che funge da vetrina, ma di base il discorso resta quello. Bisogna anche considerare che una parte di responsabilità è anche del pubblico visto il diminuire dell’affluenza ai live, cosa che rende meno sicuro anche un investimento potenzialmente sicuro da parte dei promoter degli eventi. Alla fine, al di là delle opinioni, la verità (o responsabilità) sta sempre nel mezzo.”
Giulio Galati (Hideous Divinity, Nero di Marte, Germanotta Youth)
” Sono diversi anni che attraverso i miei gruppi mi ci imbatto, purtroppo tristemente. Riguardo lo svilimento artistico mi esprimeró qualche riga avanti, in termini di investimento invece trovo che il meccanismo sia piuttosto semplice, nei termini dell’esperienza che ho maturato in questi anni di attività in un campo musicale relativamente specifico. Quando un’agenzia, o un insieme organizzato di elementi mettono sul tavolo un servizio funzionale ed efficiente (in qualsiasi campo, musicale e non), pagare questo servizio non ha nulla di sbagliato. Vengo e mi spiego: in un tour “x” prendiamo un gruppo, piccolo o comunque agli esordi, e mettiamo che il suddetto gruppo pattuisca un cachet per serata. Subentrano gli spostamenti e le relative spese che potrebbero essere gestite autonomamente dalla band stessa. Un agenzia o chi per lei, che si occupa a monte di contattare ed affittare un band vagon od un tour bus offre un servizio, ed è naturale trovare un accordo economico fra il cachet e le spese (da condividere fra le band ovviamente) di spostamento, affitto del mezzo, benzina, caselli ecc in formula forfettaria. Purtroppo questo meccanismo è ad oggi idilliaco o comunque non è la costante. Siamo onesti, un sistema realmente ideale non dovrebbe scalare nessuna spesa al gruppo che già si impegna a trascorrere settimane se non un mese intero fuori casa e magari rinunciando ad altri lavori o comunque prendendo ferie, ma sarebbe già un buon compromesso. Sempre per esperienza personale, ho visto gruppi sobbarcarsi spese invereconde, tali da coprire gli spostamenti di un intero tour da 4 band. Questo ovviamente perché la possibilità economica di queste persone lo consente, e perché ognuno è libero di impegnare il proprio denaro come vuole. Ma qui c’è il “tranello”, ovvero che spendere il denaro in un certo modo è una scelta, una scelta da compiere sempre in modo maturo poiché compromette potenzialmente l’andamento di un sistema e delle band e persone che ne fanno parte. Ugualmente per l’agenzia del caso, che ovviamente approfitta di chi è disposto a pagare cifre inverosimili sapendo benissimo che quel gruppo agli esordi guadagnerà poco e nulla in termini di fantomatica “visibilità”, se non un bel portafoglio svuotato. Torniamo sullo svilimento artistico adesso. Già il termine stesso è una parola, ed il concetto che risiede dietro, particolarmente scottante di questi tempi, difatti non è il caso per dilungarsi a riguardo. Ma è piuttosto lampante realizzare che non c’è nulla di artistico o nobile nel gettare i soldi al vento, o tantomeno approfittare di chi può farlo sapendo benissimo cosa sta propinando ai suoi clienti. Altrettanto idilliaca a mio parere è la soluzione, ovvero boicottare la parte corrotta del sistema, ma come in ogni cosa si deve partire dal piccolo. A noi italiani piace molto lamentarci e non mettere sul piatto nessuna soluzione. È evidente che la soluzione c’è, ma è impegnativa e richiede una sensibilizzazione che necessita di molto tempo. Ma si deve iniziare, e chi ha già iniziato deve tenere duro. Con i miei progetti, per scelta, non abbiamo mai accettato nessun tipo di pay to play, ma al massimo abbiamo adottato la soluzione del compromesso di cui sopra, dove è possibile non andare in passivo, ma piuttosto partire da un concetto di “andare in paro” per poi, mattone dopo mattone e con costanza, arrivare a superare un certo tipo di breccia economica. Non perché siamo più svegli o meglio di altri gruppi, ma perché ci si è preposti un obiettivo chiaro e ci siamo sempre impegnati a rispettarlo. I risultati arrivano, se si lavora con costanza e consapevolezza.”
(commento parziale tratto da un post sul profilo Facebook) ” … E’ sempre esistito, soprattutto in Usa. Serve a promoter, agenzie di booking e band professioniste per finanziare un tour nella sua fase iniziale. E’ la normalità. Le band in cui ho militato e milito non hanno mai pagato un solo centesimo per suonare con qualcuno o per aprire a qualcuno. Non è un vanto e nè lo dico con orgoglio: è semplicemente accaduto, un po’ per ideale e politica di band e un po’ perché sono e siamo sempre stati scannati economicamente. Nessuno di noi è, ahimè, figlio di papà e riusciamo a malapena a mantenerci coi nostri lavori. Tutti i ricavati di concerti e vendite dei dischi vengono automaticamente reinvestiti in nuove registrazioni o in nuovo merchandising. Di solito non avanzano soldi neanche per girare un video. Ma, detto ciò, io non giudico e non contesto chi paga per suonare. Se avessi avuto i soldi, in qualche caso lo avrei fatto pure io. Chi non sognerebbe di aprire per una band di cui sei fan? Ognuno è libero di investire i propri soldi come meglio crede. La selezione la faranno sempre il palco e il pubblico … Perché il palco e il pubblico non fanno sconti e provvederanno ad una giusta scrematura”
Alessandro Inolti (Fabrizio Moro, Marco Machera, Echotest, Adrian Belew)
“Penso che il pay to play sia la cosa più sbagliata che possa esistere non solo nel nostro pianeta, ma anche in ogni parte dell’universo. Quando ho studiato a New York, ho sentito che il fenomeno del pay to play esiste anche negli USA. Queste voci mi sono arrivate direttamente da persone americane. Mi veniva raccontato di come alcuni musicisti pagassero per suonare in locali per il semplice motivo che quel posto è frequentato da manager e altri addetti ai lavori. Penso che tutto questo sia estremamente sbagliato perchè l’arte ha un prezzo e pagare per suonare è come ridurre al minimo, non avere considerazione alcuna dello sforzo che ognuno di noi fa per studiare, creare e per dare un contributo al mondo e a tutte le persone che manifestano una sensibilità verso il lato artistico. Non dico che bisogna spendere chissà che cifre, ma tutto ha un valore e non dev’essere solo al merito o a commenti superficiali di congratulazioni. Il valore è anche monetario ed è giusto che sia così. Le band che pagano per suonare o che suonano gratis per me, sbagliano. Anzi, aggiungo che se un locale ha intenzione di fare musica dal vivo non solo deve prevedere anche i costi dei musicisti, nè più nè meno come deve prevedere di dover pagare le altre spese di una normale attività, ma deve anche impegnarsi nella promozione delle serate anche nel proprio interesse. Ovviamente anche la band e gli artisti devono collaborare nel divulgare l’evento, ma tutto deve assolutamente partire dal locale. La band ed i suoi musicisti devono spendere il loro tempo a creare musica, questo è un investimento di tempo già considerevole. Io non pagherei mai per suonare, neanche dovessi suonare in apertura a Peter Gabriel (uno dei miei artisti preferiti in assoluto). Se si paga per suonare, vince la solita regola secondo la quale ad andare avanti sono sempre le persone più danarose, invece che quelle più meritevoli. Sono un fiero e strenuo sostenitore del merito. Mi capitò tempo fa di andare ad ascoltare un artista e mi dissero che il gruppo d’apertura aveva pagato per suonare. Furono penosi. Però purtroppo ai giorni odierni c’è una crisi incredibile e difficilmente paragonabile ad altri periodi, e quindi fenomeni tristi come il pay to play stanno sempre più emergendo. E’ una situazione avvilente”
Federico Maragoni (Claudio Simonetti’s Goblin, Black Mamba, Adimiron)
” Da addetto ai lavori credo che il Pay to Play sia un mezzo, alternativo, per arrivare a un determinato pubblico. Non ho dubbi nel ritenerlo sbagliatissimo per una band agli esordi, anzi totalmente inutile! Capisco bene al tipo di Pay to Play al quale fai riferimento e lo trovo totalmente sbagliato. Trovo giustissimo chiamarlo “Giusto investimento”, fatto al momento giusto, se proprio ne vale la pena. Ovviamente nessuno di noi vuole pagare. Tutti noi pensiamo che la nostra musica sia speciale, che sia la più figa, ma la realtà purtroppo è che in questo periodo storico/musicale dobbiamo prendere atto che serve un piano editoriale ben studiato, ragionato, supportato da un preciso calendario e un cazzutissimo budget plan. Vuoi lanciare la tua musica in un mercato oramai saturo? Bene, fai un grande respiro e prendi atto che se vuoi esporre la tua musica a milioni di persone devi avere un budget, e che, con il passare degli anni, sarà essere sempre più grande. Parliamo di una legge di mercato molto semplice: domanda/offerta. Non parliamo di musica. Oggi abbiamo la fortuna di avere mezzi come i social network, Spotify, Youtube. Mezzi che ti permettono di raggiungere milioni di persone con pochissimi euro investiti in pubblicità. Io credo che il Pay to Play sia un termine anacronistico. Credo di più che un artista debba costruirsi una credibilità, una fan base prima in assoluto sui social media e poi esporsi con una Booking. La Booking agency semplicemente vende un prodotto. Il tuo prodotto ha un bel biglietto da visita? Allora stai sicuro che troverai festival e tour senza Pay to Play. Quando mi chiedono “Hai fatto pay to play in passato? Lo rifaresti?” rispondo: “Sì, l’ho fatto in passato, purtroppo!!” Perché quando l’ho fatto in passato avrei potuto investire i soldi del Pay to Play in pubblicità sui social, sicuramente vendendo più album che suonando 30 minuti, prima di 40 band, senza cena, senza acqua, con 40000 km sul groppone. Se tornassi indietro col cavolo! Fortunatamente, sono uscito da questa pratica oramai da anni. Posso dire con totale certezza che il Pay to Play che si fa in Italia è sbagliatissimo per quello che viene offerto dalla controparte, salvo rare eccezioni. Il segreto sta nel capire la propria nicchia di vendita e lanciarsi con costanza cercando di far bilanciare l’investimento con le entrate derivanti da Streaming e copie fisiche. Tante band pretendono di suonare live senza avere una infrastruttura, un ufficio stampa. Faccio sempre quest’esempio: Vuoi aprire un bar? Bene, considera hai: la licenza, l’affitto, la corrente, le tasse etc..Dopo un investimento iniziale, se sei bravo e sai farti tanta bella pubblicità, stai ben sicuro che inizieranno ad arrivare i profitti. Ad esempio conBlack Mamba ho ragionato completamente “out of the box”, creando una fan base solida, sfruttando un pubblico e parole chiave già ben sviluppate da band già famose, per veicolare le vendite successivamente sul mio prodotto musicale di inediti. La manovra ha funzionato alla grande e ho bypassato il pay to play live totalmente. Allo stato attuale abbiamo un super management, il secondo album in uscita, un videogame che svilupperà grandi introiti che verranno investiti sempre nella band e tantissimi festival e tour in uscita per il 2020 Pagati :)”
“Ho sempre accuratamente evitato di propormi a locali in cui la musica era un mezzo anziché la ragione d’essere. Ciò nonostante, negli anni mi è sicuramente capitato di ricevere questo tipo di richieste, con il risultato di bypassare automaticamente quei posti o quelle persone. Ora studio e risiedo in Olanda. Qui fino ad ora non mi è mai successo, e vedendo il rapporto che si ha con l’arte e la percezione del bello, dubito possa accadere. Per onor di cronaca mi è accaduto in Germania, dove mi è stato richiesta una garanzia di 50 biglietti venduti, essendo la proposta un progetto nuovo e straniero. Se da una parte vedo la logica del ragionamento, dall’altra penso anche se un locale chiede garanzie per avere musica dal vivo, vuol dire che non dispone di una clientela propria e indipendente. Non ho mai dato una percentuale ad un musicista titolare. Tutti i musicisti che ho avuto il piacere di sostituire sono stati estremamente trasparenti nei miei confronti. A volte, per garantirmi il cachet stabilito, il batterista titolare ha aggiunto la differenza di tasca sua. Mi rendo conto di essere stato fortunato, o forse di aver scelto con cura gli ambiti di lavoro. Questa pratica non mi è comunque nuova, nè tantomeno mi suona strana. Spesso ho sentito di musicisti che rivendicano una parte del cachet perché “in fondo io ho fatto tutto, il sostituto deve semplicemente suonare”. In sommatoria del discorso sul pay to play e tenendo conto di diversi aspetti, ciò che posso dire senza remore, è che io non ho mai pagato per suonare, né mai lo farò. Vedo due ambiti di prestazione musicale: artistico e professionale. Per ambito artistico intendo il suonare per offrire sensazioni al pubblico che viene ad ascoltare. Per essere in grado di trasmettere qualcosa, ho passato anni ed anni a studiare e perfezionarmi. Come recita un famoso detto, sono quegli anni che devono essere pagati. L’altro ambito è quello professionale, dove cioè si viene ingaggiati per sostituire un altro musicista, spesso senza neanche conoscere gli altri membri della band e per suonare un repertorio inedito senza prove. Per ridurre il margine di errore il più vicino allo zero, ho di nuovo studiato anni (gli stessi per fortuna) che giustamente richiedono il loro tributo. Il problema è che spesso il pagare per suonare coincide con lo svalutare una professione che appunto è una professione, cioè un lavoro svolto in esclusiva da chi coltiva skills che altre persone non hanno. D’altro lato, capisco (ma non condivido) la logica di chi accetta di pagare per avere un posto in un locale o rassegna che possa in qualche modo dare visibilità. Si vede l’atto di pagare come una sorta di investimento per ottenere qualcosa in più in ritorno. In realtà quello che si ottiene è garantirsi il fatto di non poter chiedere un cachet in un ipotetico nuovo concerto. Il senso di rispetto verso il percorso fatto e la comunione di vedute dei miei compagni di viaggio mi hanno sempre impedito di entrare in questi circuiti. Quando si crede in ciò che si propone musicalmente, bisognerebbe – con molta onestà intellettuale – esigere di veder riconosciuti gli sforzi che l’hanno prodotto. Qui in Olanda, fino ad oggi non mi è mai capitato di sentire di qualcosa del genere. Mi sono confrontato con altri musicisti olandesi, che come parte eloquente della risposta sembravano non concepire la domanda. Come sorta di compromesso, qui si usa chiudere date con locali di musica live (quindi non locali che usano la musica come specchietto per le allodole) a cachet minori, in caso di progetti appena nati. Certo non è nulla di nuovo o di esclusivo, ma da parte dei musicisti e del locale, ho percepito chiaramente un mutuo interesse, nel cercare di offrire comunque qualcosa. Costante inamovibile, è l’assenza di scoprire che a fine serata cibo e bevande erano a carico dei musicisti.”
“Del pay to play posso dirti che ne ho sentito tanto parlare, ma per mia fortuna (anzi soprattutto per questi individui) nessuno ci hai mai provato; posso quindi dire con orgoglio che non ho mai fatto nessun evento pay to play. Lo trovo una delle infiltrazioni di una società con sempre meno valori, che va a discapito della nobiltà d’animo per la quale si inizia ad intraprendere un qualsivoglia discorso artistico. Questo rapprenta un motivo valido per il quale tutti nel nostro piccolo con un piccolo NO potremmo sicuramente arginarla e tornare ad esibirci per il piacere e la necessità spirituale di farlo. Non mi piace giudicare chi usa questi mezzi per suonare su palchi importanti , ma se fossi al loro posto aspetterei i tempi giusti per far sì che questa possibilità non debba neanche palesarsi. Per quanto concerne l’aspetto delle sostituzioni per fortuna non mi è mai successo di pagare alcuna percentuale a chi andavo a sostituire, anche se sarebbe potuto succedere in diverse situazioni, e questo è stato sintomo della bravura e dell’intelligenza della persona che ho sostituito”
Phil Mer (F. Renga, The Framers, Pooh, Pino Daniele)
“Non so cosa intendi precisamente per “pagare per suonare”, personalmente ritengo ovviamente che si debba essere pagati per suonare, come per tutte le professioni…ma, come succede in tutte le professioni, mi è capitato di voler investire. Nel mio caso “investire” vuol dire non chiedere compenso laddove capivo che ci potesse essere un vantaggio e che questa mia disponibilità mi avrebbe portato frutti vantaggiosi in futuro (il 90% delle volte poi è successo)…penso che non chiedere retribuzione, in alcuni casi, sia meglio e più dignitoso di richiedere una retribuzione bassa. Anche perché fare un lavoro in amicizia, o per investire, o per test non crea un precedente di mercato, a differenza di un prezzo basso. Faccio mio il motto: meglio “a gratis” in casi eccezionali che “per poco” sempre! Ti faccio un esempio concreto, quando si è trattato di prestare la mia batteria a Ferrone in studio, di scrivergli le partiture e di fargli da drumtech non ho chiesto nessuna retribuzione ai Pooh, non ho voluto nemmeno le spese, sebbene sia stato un impegno di qualche giorno che mi ha richiesto anche parecchio lavoro di preparazione…non chiedendo un compenso preciso ho fatto bella figura, dimostrando disponibilità e appartenenza al progetto, fattori che hanno probabilmente influenzato anche la decisione di assumermi nella band per il periodo post-Ferrone…inutile precisare che con quel ingaggio successivo, di oltre 3 anni di concerti, mi sono comprato una casa. Per quanto riguarda le sostituzioni con una percentuale da dare a chi si va a sostituire, questa mi è nuova…la sostituzione è un episodio già di per sè fastidioso, non ben visto da artisti e management e agenzie però qualche volta si rende necessario. In passato ho avuto sostituti, tuttora li ho in alcune situazioni e a mia volta sono stato e sono il sostituto…anche in situazioni importanti, ho sostituito Golino con Pino Daniele, Rivagli con Ron, Polidori con Giusy Ferreri. Non ho mai chiesto nessuna percentuale a chi mi sostituisce, ho sempre passato il mio cachet in maniera trasparente, integrando le spese extra di tasca mia qualora ce ne fossero state. La sostituzione non deve essere una fonte di lucro, ma è una soluzione ad una difficoltà e ad un accavallamento di impegni che deve essere affrontata come un “favore” tra amici batteristi. Se dovessi dare un consiglio ai giovani batteristi direi che è un periodo difficile perché c’è più offerta che domanda, ci sono tanti giovani pronti per il lavoro ma poche opportunità visto che i locali sono pochi, i tour sempre meno, i dischi in cui si chiamano musicisti sono rari. Ai giovani consiglio di essere imprenditori oltre che bravi musicisti, sapersi vendere bene anche sui social, rendersi interessanti ma soprattutto concentrarsi e impegnarsi per diventare “eccezionali”, superiori alla media, speciali”
“Nella mia piccola esperienza non mi è mai capitato di imbattermi in questo sistema. I gruppi e i maestri con cui ho iniziato a suonare sin da piccolo mi hanno fatto comprendere quanto la musica e tutto quello che le si crea attorno abbiano una certa sacralità. Pagare per suonare? Non lo farei, mi pare assurdo. Questo non toglie che per una band possa essere un buon trampolino di lancio, ma non è tra quelli che io e i miei colleghi possiamo pensare di adottare. Credo mi verrebbero i crampi allo stomaco… del resto abbiamo suonato in tanti concerti accettando anche solo cinquanta euro (per tutta la band). Non voglio dire di non fare investimenti mirati per la promozione della band e di gavettare all’infinito, ma di stare anche molto attenti ai tranelli che questo sistema malato ha creato per imbrogliare i piccoli gruppi“
Alberto Paone (Calcutta, Michele Bravi, Malihni, Libra)
“Quando ero più piccolo c’erano delle situazioni che in un modo o nell’altro facevano intendere che per suonare nel locale x o nel festival y avresti dovuto pagare o in maniera meno diretta, oppure garantire un certo numero di persone per esibirti. Personalmente ho cercato sempre di evitarle e di non leggittimare un meccanismo che non fa altro che uccidere il mercato della musica dal vivo e dei musicisti. È indubbio che la musica sia un business ma quello del pay to play è un fenomeno che ha alla base la pochissima considerazione che nel nostro paese più di altri si ha del mestiere stesso del musicista. E’ come se si andasse dall’avvocato o dal medico a contrattare su come e quanto pagare una prestazione o peggio come se fosse il professionista a pagare per esercitare. Purtroppo credo che se le cose non cambieranno nella testa e nella mentalità delle persone e soprattutto di chi organizza musica dal vivo sarà sempre più difficile formare nuove generazioni e alimentare l’entusiasmo di chi si approccia alla musica suonata.”
Ugo Rodolico (Illogic Trio, Se lo parli lo suoni, Trip-a-ning)
“La situazione è abbastanza ingarbugliata quanto triste ma è comunque un segno del nostro tempo sociale, politico, economico e culturale. Io non demonizzo il fenomeno in sè perché è appunto lo specchio della realtà che l’uomo vive. Anche i social ormai hanno un sistema di inserzioni a pagamento con strumenti di target e quant’altro. Il problema secondo me è da spostare su come l’artista vive il suo personale evento creativo nella società odierna. Cioè a monte di questo fenomeno ci sono intrecci complessi che appartengono alla dimensione dell’uomo moderno. E più che risposte ci sono domande che nascono come:” siamo ancora capaci di vivere l’arte nel presente, hic et nunc, come puro atto creativo di gioia? Siamo ancora capaci in un mondo iperconnesso di creare un flusso artistico cioè di essere immersi in un primitivo artigianato dove tempo, denaro è successo non hanno importanza? E cos’è il successo ? Perché se a queste domande non diamo una risposta o la diamo negativamente allora forse dobbiamo rivedere tutta la nostra posizione di artigiani della musica… Il problema dell’arte in ogni tempo è stato sempre che essa, l’arte dovrebbe essere avulsa dal mondo ma contemporaneamente parlare del mondo e parlare al mondo. Oggi forse l’arte non ha più parola (torna sempre), non vuole più raccontare il mondo ma si lascia raccontare dal mondo. È un dato di fatto… l’artista ha sempre “sputato” sul mondo. Oggi non lo fa più“
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