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Pay to play, investimento o svilimento artistico ?

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Si definisce “pay to play” (traducibile letteralmente con “pagare per suonare”) quella pratica secondo cui una band o un artista paga una certa cifra per poter suonare prima di una band molto conosciuta, oppure in festival e locali prestigiosi. Il tutto in nome della tanto agognata “visibilità” che i nostri tempi social hanno elevato a valuta ufficiale della musica.

Il mondo del lavoro nella musica : vicini ad una nuova era ?

Il mondo del lavoro è in un periodo di grande subbuglio ed anche i lavoratori nel campo musicale non sono estranei alle difficoltà professionali. Il mercato del lavoro risente di un momento di grande cambiamento, dove immaginare il protrarsi delle logiche con cui si era soliti ragionare anni fa è totalmente impensabile. Per fortuna o purtroppo.

Un sempre più crescente numero di giovani musicisti si affaccia al mondo del professionismo, un mondo che da diverso tempo registra segni di visibile crisi.  Alle difficoltà già note da tempo dei pagamenti delle prestazioni e del trovare ingaggi, si aggiungono la ormai prossima scomparsa di alcune figure che mediavano tra artisti e approvvigionamento d’ingaggi vari. Figure quali impresari (o promoter), talent scout, etichette discografiche ed altri ruoli preposti a servizio dei musicisti per la loro promozione e scoperta, sono sempre più rare e relegate unicamente ai vertici più alti dell’industria discografica, lasciando emergenti e molti professionisti a dover fare tutto per conto proprio.

Il musicista giovane che attualmente intende intraprendere un percorso professionale deve avere molte più competenze rispetto a quelle che venivano richieste precedentemente, dove ad un musicista veniva richiesto “semplicemente” di fare musica al meglio possibile e sviluppare la propria arte. Ora il musicista moderno oltre a saper suonare uno strumento e desiderare ardentemente di voler intraprendere seriamente questa carriera, deve sapere le lingue, essere un abile comunicatore sui social con fotografie, contenuti e video più qualitativi possibili, ed avere competenze imprenditoriali e gestionali piuttosto avanzate. Senza queste abilità, le possibilità di riuscire in questo lavoro sono piuttosto assottigliate (ma non del tutto impossibili).

C’era una volta la “gavetta”

Un tempo questo passo era la famosa “gavetta” da cui bisognava passare. Ora i tempi frenetici, gli esempi dati dai mass media e l’informazione diffusa hanno quasi messo ulteriore fretta alla volontà di affermarsi da parte dei giovani musicisti. Insomma i tempi quasi impongono di raggiungere il successo il prima possibile in un campo da tempo in forte crisi. Purtroppo l’industria musicale da tempo in ginocchio visti i mancati incassi derivanti da dischi che non si vendono e concerti sempre più spesso lontani dal sold out, hanno da tempo iniziato a volgere lo sguardo verso artisti che si potessero esibire a costi inferiori (se non addirittura a titolo gratuito) in cambio della famosa “visibilità“.

Questo comportamento ha innescato un autentico circolo vizioso che ha minato e gravemente danneggiato tutte le categorie dei musicisti, ed in particolar modo i professionisti già attivi da tempo che hanno dovuto passare per la famosa “gavetta”. Un autentico “strappo generazione” che viaggia di pari passo al concetto di “concorrenza sleale”, popolando nel tempo locali, festival e manifestazioni musicali di giovani ragazzi animati da una fortissima spinta artistica e volontà di volersi esibire, ma dalla qualità che il più delle volte era di molto lontana da quella dei professionisti, allontanando così alcuni amanti della musica dal vivo e alimentando il circolo vizioso sopra descritto.

Parzialmente gli strumenti offerti dalla rete hanno dato a molti giovani musicisti la possibilità di ottenere la famosa “visibilità”, ma il più delle volte questi “fenomeni del web” difficilmente hanno raggiunto il pieno consenso senza il passaggio sui palchi più prestigiosi. Quindi, come fare allora ad arrivare a questi palchi prestigiosi ?

Alcuni (fortunatamente) con duro lavoro, perseveranza ed una buona dose di porte chiuse in faccia, altri evitando tutto ciò, ma bisogna ricordare che “l’arte celebra l’uomo, non lo manipola” come diceva Keith Haring.

Un fenomeno che parte da lontano

Comunemente si pensa che questo fenomeno sia prettamente italiano o europeo e che si sia affermato solo negli ultimi anni. Entrambe le convinzioni sono errate.

Il fenomeno inizia negli anni ’80 a Los Angeles: siamo nel 1985, la violenza è particolarmente diffusa nella città californiana e le ordinanze restrittive hanno ormai spopolato i locali notturni. Per recuperare almeno in parte i mancati profitti, alcuni promoter pensano allora d’iniziare ad affittare i locali direttamente alle band che desiderano esibirsi. I cosiddetti affitti di uno” slot” (uno spazio nella serata) possono andare dai 500 fino ai 1800 dollari a serata, per un concerto della durata di appena 45 minuti. Uno dei principali club ad esercitare questa pratica è il famosissimo e storico locale Gazzarri’s: qui, per mezzo di quello che ormai possiamo ufficialmente chiamare “pay to play”, muovono i primi passi gruppi del calibro di Poison, Mötley Crüe, Van Halen (sebbene in un’intervista rilasciata anni dopo il gruppo smentirà un proprio coinvolgimento) e Guns N’ Roses.

Solo a distanza di pochi anni, nel 1989, nascerà il comitato RAPP (“Rockers Against Pay to Play”) proprio come forma di rappresaglia contro il diffondersi del fenomeno. Il Rapp tentò di portare avanti campagne di boicottaggio contro quei locali che erano soliti portare avanti la pratica ma, dopo qualche prima sporadica manifestazione, non si ebbe traccia di una effettiva prosecuzione delle proteste.

In un’intervista del 1989 per il mensile americano Spin, il batterista dei Gung Ho! descrivevacosì la situazione musicale a Los Angeles in quegli anni: “Ci venne detto che per 960 dollari ci avrebbero dato uno slot ed un pasto prima dello spettacolo. Ci dissero che anche i The Zeros si sarebbero esibiti – una grande attrazione a Hollywood. Il sistema funziona che ti spingono ad acquistare 120 biglietti da rivendere al costo di 7 dollari a biglietto; se riesci a rivenderli tutti, allora puoi riavere indietro i tuoi soldi. Il che è quasi impossibile in questa città. Tutti pagano molti soldi – non mi interessa quello che dicono, nessuno arriva a vendere tutti i propri biglietti, a meno che non siano scritturati e l’etichetta se ne faccia carico per te. Alla fine, quella volta arrivammo alla data dello spettacolo che non ci fu la cena ed i The Zeros non erano nemmeno presenti. Dopo questa esperienza aderimmo al RAPP e per questo finimmo nella lista nera di diversi locali”.

Il “pay to play” è ancora oggi largamente praticato in terra americana e si è diffuso in tutto il mondo, pur continuando a dividere pubblico e addetti ai lavori. La band inglese Manic Street Peachers nella propria biografia “Nailed to history” ammette di aver preso parte a diversi eventi pay to play ai propri esordi; come riportano alcune cronache (in primis il libro biografico “Watch you bleed”), anche i primi Guns ‘n’ Roses erano attivi per mezzo di questa pratica. Di opposta fazione erano invece i Nirvana, che agli inizi della loro carriera avevano composto una canzone dal titolo “Pay to play” (successivamente rinominata “Stay away”), al pari di della punk band Cringer con la loro “Pay to play” del 1991, entrambe scritte per denunciare e protestare contro il fenomeno. Tra i principali critici di questo sistema ci fu anche Frank Zappa, il quale si rifiutò sempre di pagare non solo i locali dal vivo ma anche le principali radio per trasmettere i propri brani in heavy rotation – su questo fenomeno chiamato payola torneremo più avanti.

 

Nello stesso periodo in cui prendeva piede a Los Angeles, il pay to play nasceva persino in Giappone, come riportato dal libro “Performing in Japan” di Duane Levi, diffondendosi sempre di più nel corso degli anni ’90  nonostante la grande recessione economica in cui versava il paese. Ad oggi, il pay to play è una delle pratiche più usate dagli artisti locali per suonare nel paese, tanto che è stato coniato il termine “noruma” proprio per indicare la richiesta da parte di un locale di un numero minimo di prenotazioni e biglietti venduti per far esibire una band.  

In Italia questo fenomeno è arrivato verso la fine degli anni ’80, con una fortissima impennata ed in costante crescita registrata negli ultimi 10 anni con l’avvento della profonda crisi e rinnovamento del settore. Uno dei motivi che hanno facilitato l’arrivo del pay to play in Italia è ascrivibile al nascere dei primi movimenti punk e metal nelle principali città della penisola. Difatti pur essendoci folte schiere di appassionati del genere, non vi erano ancora locali, spazi e rassegne che ospitassero questa nascente forma musicale. Diversi gruppi nazionali si trovarono costretti ad affittare spazi al fine di potersi esibire in eventi caratterizzati da un forte spirito di appartenenza ad una scena bistrattata dal resto della musica. A Roma ad esempio uno dei teatri più affittati dai primi musicisti metal era il Teatro Mongiovino. Anche in ambito metal, comunque, in tanti si Tra opposero a questo sistema: ad esempio in tempi recenti è stata fondata la “TMA Turin metal association“, un’associazione di gruppi metal torinesi che si pone come “risorsa e un punto di riferimento per tutte le band che si schierano contro il cosiddetto Pay to Play e contro le agenzie che stanno togliendo spazio a tutte le band che non pagano per avere i loro “servizi”.

Attenzione però a non incappare in un fraintendimento facile. Non bisogna circoscrivere la pratica ad un solo genere musicale, in quanto il pay to play è diffuso in ogni genere musicale e si è sviluppato sotto diverse forme,che ora andremo a vedere. 

Cos’è il “pay to play” ? Le 5 pratiche

  • Le aperture ai gruppi famosi

Questo argomento è uno dei più controversi e più dibattuti. Vi è mai capitato di vedere un cartellone dove veniva pubblicizzato un nome altisonante, un gruppo spalla mediamente conosciuto e sotto una folta schiera di gruppi perlopiù sconosciuti ? Molto spesso (fortunatamente non sempre) questi gruppi sono presenti per aver pagato quello spazio (o slot come si dice in gergo). In precedenza, negli anni passati, lo spazio delle aperture era riservato a gruppi nazionali nell’intento di farli crescere a fianco di gruppi più rodati (obbiettivo dichiarato), ma sopratutto di richiamare fan locali al concerto (motivo più plausibile), il tutto venendo comunque retribuiti. Il fenomeno delle famose “aperture ai gruppi famosi” si è sviluppato in maniera molto importante nel campo metal – come abbiamo visto, ma ad oggi è pratica diffusa in tutti i campi musicali dal pop al jazz.

  • Quanta gente mi porti ?

Usanza sempre più tristemente diffusa, specialmente nei locali delle grandi città, è quella di concedere uno spazio a patto che il gruppo assicuri un certo pubblico, acquistando un determinato numero di prenotazioni o biglietti da rivendere a loro volta. Anche questa pratica nasce a Los Angeles, dove è a tutt’oggi ancora molto presente specialmente nei locali sul Sunset Strip. Questo mezzo di promozione viene citato anche da Nic Adler (proprietario del night Roxy Theather sul Sunset Strip) nel corso di un’intervista per il libro “The great music city”, dove a sua parziale discolpa afferma: “Se un gruppo paga 800 dollari e quando il sipario viene su non c’è nessuno tra il pubblico, non voglio essere pagato” – E ci mancherebbe pure, aggiungo io. 

A titolo del tutto personale, reputo questa usanza -se possibile- ancora più “barbara” in quanto trasforma i musicisti in autentici “accalappiatori” di pubblico, costringendoli di fatto nei giorni in prossimità all’evento ad investire più tempo all’intercettare persone invece che a preparare la performance artistica. Insomma, prima il business ed in secondo luogo l’espressione della propria arte.

  • Percentuali sulle sostituzioni

Non esistono fatti accertati e non vi è alcuna conferma alla luce del sole, ma tra gli addetti ai lavori echeggiano voci che strizzano l’occhio a questa pratica: poniamo il caso che un musicista sia impegnato contemporaneamente in più tour o impegni lavorativi e non riesca ad essere presente ad una stessa data in contemporanea. In quel caso, manda un sostituto al suo posto. Ebbene, pare che a volte il sostituto – molto spesso qualche giovane allievo agli inizi della carriera – debba cedere una percentuale del suo ingaggio alla persona che è andato a sostituire. Tale pratica sembrerebbe diffusa in ogni campo musicale e moralmente accettata, anche se si tratta a tutti gli effetti di pagare per suonare. Per dovere di cronaca, sottolineo che nessun professionista ha mai confermato questo fatto.

  • Passaggi in radio

E’ tra le formule più antiche di pay to play. Negli States prende il nome di “payola” e consiste nel pagamento (o per meglio dire “corruzione”) di un DJ o di un direttore radiofonico da parte di etichette discografiche o artisti stessi in cambio della messa in onda dei brani da loro prodotti. Questa pratica è illegale ed il primo scandalo avvenne nel 1960, quando un allora famoso DJ statunitense venne incriminato per aver accettato $2.500 da una società di edizioni, giustificando tale somma come premio di gratitudine che non lo avrebbe minimamente influenzato nella programmazione. Il dj pagò la cauzione, ma lo scandalo distrusse tanto la sua carriera quanto quella di molti altri DJ di rock & roll.

Nel 2002 un senatore americano dichiarò di voler metter mano alla legge che impediva questo fenomeno perché la riteneva troppo antiquata e lontana dai tempi, sottolineando come negli anni molte etichette ed artisti fossero riusciti ad evitare le sanzioni previste attraverso un escamotage: segnare a bilancio una serie di entrate sospette sotto la voce di introiti “non tradizionali”. La legge è però ad oggi ancora oggetto di dibattito. In Italia non vi è una regolamentazione precisa sull’argomento, relegando il tutto alle tematiche di “pubblicità occulta“; non sono mai stati registrati ufficialmente scandali similari a quello accorso negli States nel 1960.

  • Comprare like e visualizzazioni su Internet

Nella società attuale l’apparenza è tutto. Il mondo musicale non è estraneo da questa logica che pare imperante. Di conseguenza si corre spesso a valutazioni affrettate quando vediamo artisti dai grandi numeri online: il fatto che possano vantare numerosi like sulle piattaforme social e alti numeri di visualizzazioni su Youtube, ci fa sembrare il loro successo un argomento a testimonianza della loro validità.

Ma quei numeri che ci paiono altissimi potrebbero essere “gonfiati” da società che chiedono soldi in cambio di followers e likes. Tale pratica è legale e molto diffusa in ogni universo professionale non solo musicale. Youtube da molto tempo si batte per arginare questo fenomeno, ma pare ancora molto lontano da una soluzione definitiva per terminare la compravendita di visualizzazioni. Difatti il florido mercato della “visibilità” si è molto evoluto nel tempo e pare sempre più difficile capire le interazioni reali e quelle false.

❌ Perchè è un pessimo investimento e svilisce la tua arte

  • La questione morale ed etica. La musica è un lavoro e come tale dev’essere remunerato. Pagare per lavorare rappresenta un ossimoro pericoloso che, altrettanto pericolosamente, va ad allargare la forchetta tra musicisti ricchi ma di scarso talento e musicisti talentuosi ma poveri. Insomma il classico concetto “per fare i soldi devi avere i soldi“.
  • Se si spera di suonare in apertura ad artisti di prestigio allo scopo di far ascoltare la propria musica a quegli stessi musicisti che calcheranno il palco dopo di te, ci si imbatterà in una dura realtà: bisogna considerare che difficilmente calcherete il palco davanti ai vostri idoli, se non altro per una meta questione di orari. Difatti, se le vostre esibizioni sono nel pomeriggio, il più delle volte gli artisti saranno impegnati in interviste e attività promozionali o più semplicemente si staranno rilassando in albergo o facendo i turisti per la città. Se si pensa di fare colpo sfruttando il grande pubblico, molto spesso il grosso dei supporter arriva all’approssimarsi dell’inizio del gruppo principale e non sempre quelli che arrivano all’apertura dei cancelli sono ben disposti ad ascoltare altri gruppi (ricordiamo la cattiva abitudine di molti fan di contestare i gruppi di supporto lanciando sul palco oggetti).
  • Se nell’ambiente si sparge la voce che suoni pagando, diventa molto difficile togliersi tale etichetta di dosso, sia nel circuito dei festival (che continueranno a chiamarti solo dietro pagamento), sia nella cerchia degli altri professionisti, dato che il più delle volte guardano di pessimo occhio chi aderisce al pay to play
  • Se è vero che i musicisti presenti in cartellone con il pay to play vengono filtrati e selezionati in origine, è pur vero che si incorre nel rischio di offrire uno spettacolo non equiparabile a quello di artisti che arrivano sui grandi palchi esclusivamente per i propri meriti artistici. La minor qualità di alcuni spettacoli ha portato nel corso degli anni una sempre più diffusa disaffezione verso alcuni festival o manifestazioni musicali, nei quali il pay to play è stato eccessivamente marcato
  • Se non si ha una strategia ben consolidata, basi solide per affrontare il ritorno di pubblico, un progetto artistico definito, il riscontro che otterrai con il pay to play sarà un boomerang più dannoso che altro

✔ Perché è un investimento e non ci si deve sentire sviliti

  • Siamo onesti intellettualmente: con il Pay to Play in realtà non si sta pagando il diritto di suonare o un servizio di booking, si sta pagando un servizio di promozione. Si tratta di pagare per la possibilità di usufruire del brand, del pubblico e della notorietà che un altro artista si è costruito nell’arco di anni; è in buona sostanza una sorta di servizio di influencer marketing (un tipo di marketing molto diffuso sui social in cui l’attenzione è posta sulle persone influenti), ma dal vivo. E’ in fondo l’ennesima manifestazione di un mondo agguerrito e pronta alla competizione, dove ogni mezzo è lecito.
  • Una domanda che ogni musicista si deve fare quando gli viene proposto uno “slot” è: “mi conviene ?”. Il pay to play conviene economicamente quando l’investimento è ben calcolato, cioè quando ci si trova a spendere in maniera proporzionale al ritorno che si avrà dall’occasione ottenuta (ad esempio in termini di merchadising, vendite cd ed effettivo net-working)
  • Siamo in un contesto di “autogestione” del musicista, dove egli stesso deve esercitare anche le funzioni un tempo proprie delle “defunte” figure del manager, del promoter e delle etichette discografiche;  se una volta un’etichetta faceva un investimento per dare visibilità ad un proprio artista, perché oggi non può farlo direttamente quello stesso artista?

 

Le opinioni dei musicisti

(in ordine alfabetico)

Emiliano Cantiano (Noumeno, Metallari animati, Shores of null)

Gianluca “Cataboom” Catalani (Aborym)

Gaetano De Carli (Tubadu, Big beat trio, Muiravale Freetown)

David Folchitto (Fleshgod Apocalypse, Prophilax, Stormlord)

Giulio Galati (Hideous Divinity, Nero di Marte, Germanotta Youth)

Alex Giuliani (Helligators)

Alessandro Inolti (Fabrizio Moro, Marco Machera, Echotest, Adrian Belew)

Federico Maragoni (Claudio Simonetti’s Goblin, Black Mamba, Adimiron)

Moreno Maugliani (Valerio Scanu, Bravo Baboon, Scape)

Danilo Menna (Briga, Alphawoves, Venerus, Gemitaiz)

Phil Mer (F. Renga, The Framers, Pooh, Pino Daniele)

Dimitri Nicastri (Mòn, Calzeeni, Prophilax)

Alberto Paone (Calcutta, Michele Bravi, Malihni, Libra)

Ugo Rodolico (Illogic Trio, Se lo parli lo suoni, Trip-a-ning)

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