Il caso di Moreno Maugliani (1 ottobre 1985) riflette l’attuale situazione sociale ed economica italiana. Il propagarsi del fenomeno dei “cervelli in fuga” (ossia l’emigrazione verso Paesi stranieri di persone di talento o alta specializzazione professionale) non lascia isolato il mondo musicale. Anzi.
La situazione della batteria italiana non è da meno a questo fenomeno. Sempre più batteristi italiani vanno a ricercare nuovi stimoli, o più semplicemente una qualità lavorativa e della vita migliore, oltre i confini del nostro Paese.
Moreno è un giovane batterista italiano che da qualche tempo risiede in Olanda. Eccelso batterista di estrazione jazz ma molto attivo in diversi campi musicali. Fine esecutore dalla mirabile tecnica che abbina ad un gran gusto musicale. Attento pensatore di quello che lo circonda e dal percorso mai scontato, dove la ricerca di nuovi stimoli guida la sua carriera e rappresenta il suo maggiore focus con cui confrontarsi.
Questa scelta è stata il risultato della convergenza di diversi avvenimenti nella mia vita. Al tempo del trasloco, ero impegnato nell’ultimo anno di specializzazione Jazz al Conservatorio di Frosinone. Cercavo nuovi stimoli e l’ambiente didattico li soffocava anziché crearli. Ho sempre temuto la stasi. Ho fatto i conti con ciò che avevo raggiunto e l’ho coniugato con le sensazioni che avevo. Non avevo buone vibrazioni, quindi dovevo fare qualcosa. Allo stato attuale delle cose, fare richiesta di Erasmus mi sembrava un ottimo modo per cambiare prospettive. Scegliere dove è stato facilissimo: la mia compagna è olandese ed io ero a conoscenza del New York Jazz Master offerto dal Conservatorio di Groningen.
Terminati gli studi, ho deciso di rimanere qui. La qualità della vita mi piace moltissimo, mi permette di essere creativo e di godermi la musica e le arti in maniera ben più profonda.
Esiste a tuo avviso un qualsiasi carattere distintivo che distingue un musicista che oggi decide di formarsi in Olanda ? Come ti sei trovato a suonare con i musicisti locali ?
Dopo la laurea al Saint Louis di Roma, ho fatto un tirocinio di insegnamento in Danimarca, presso il Det Jyske Musikkonservatorium di Aalborg. Questa è stata la prima volta in cui mi sono confrontato con un approccio didattico che si rivelava semplicemente speculare al nostro. L’esperienza “olandese” non ha fatto altro che confermare questa mia prima valutazione.
Qui lo sviluppo della personalità e della creatività sono tratti fondanti dell’educazione musicale, e questo si traduce ovviamente in un approccio più libero e imprevedibile, poiché meno inscatolato da accademismo e nozionismo a noi tanto cari. Suonare con loro richiede molta sicurezza in se stessi e padronanza dello strumento; a volte rappresenta una vera sfida!
Nel bellissimo lavoro di Ugo Rodolico, si mette in stretta relazione la parola e la loro musica. In tal senso, essendo l’olandese una lingua molto dura (simile al tedesco) questo si ripercuote anche nella loro musica ? La loro pronuncia dello shuffle è differente ?
Ho scoperto il lavoro di Ugo Rodolico proprio grazie ad un tuo articolo sul Tamburo Parlante. E’ inutile dirti che i suoi risultati, ma ancora prima l’esigenza di fare questo tipo di ricerca, hanno risuonato perfettamente con il mio approccio attuale.
Per rispondere alla domanda, devo dire che non ho notato pronunce di fatto differenti. Quello che ho visto però, è che sono molto più abituati di noi a prendere spunti ritmo-melodici da fonti non strettamente batteristiche. Questo porta inevitabilmente a proporre sfumature diverse e ancor più inedite.
Negli ultimi anni moltissimi batteristi italiani sono andati a studiare in Olanda, mi vengono in mente Francesco De Rubeis, Roberto Pistolesi e Federica Bernabei. Ripensando indietro nel tempo mi viene quando nel dopoguerra molti italiani andarono a scoprire in Sudamerica ed i suoi suoni e anni dopo, ci fù un vento di ritorno con molti musicisti sudamericani che scelsero di venire a vivere proprio in Italia. Secondo te questo potrebbe accadere anche con l’Olanda o sono culture e fattori sociali troppo distanti ?
No, non penso possa accadere, perlomeno non nelle proporzioni dell’esempio da te citato. Le ragioni vanno ricercate nelle differenze di tipologia e approccio all’arte. Le città della cosiddetta Randstad (agglomerato dei grandi centri urbani dell’ovest del paese) presentano un melting pot di culture per cui a volte sembra restrittivo affermare che siano città olandesi. Sono città “mondiali”, dove culture tra le più diverse si incontrano ed inevitabilmente si fondono. Qui si percepisce quasi fisicamente l’elettricità della sperimentazione. Le barriere e le categorie saltano liberando quella che è la base della creatività. Come spiega Stephen Nachmanovitch in Free Play, così come il bambino trova connessioni con oggetti apparentemente scollegati tra loro, l’artista qui ha a disposizione patrimoni provenienti da tutto il mondo.
Questo approccio fatica ad attaccare in Italia rendendolo, almeno per il momento, meta ideale di tour ma non di ricerca sperimentale.
Anni addietro, a livello europeo Olanda e Italia erano i due paesi europei all’avanguardia nel campo del free-jazz. A distanza di tempo, in Italia questa forma espressiva è quasi scomparsa del tutto. In Olanda come vanno le cose in tal senso ?
Il free-jazz è ancora presente, sia come stile musicale, sia come approccio mentale. A mio avviso c’è stata una sorta di mutazione, o meglio di evoluzione, che vede l’approccio improvvisativo in rapporto con altre arti. Spesso ci sono eventi chiamati Spoken, dove musicisti e attori improvvisano insieme sul palco, o eventi con musicisti, visual e attori che improvvisano sullo stesso palco. Al contrario di quanto si possa pensare, il free non è appannaggio della vecchia generazione. Ho notato quasi con stupore l’esistenza di molti collettivi di improvvisazione collettiva formati da giovani e giovanissimi. Il passaggio di testimone avviene già nelle sedi accademiche. Nella mia esperienza personale, ho avuto l’immensa fortuna di studiare con Michael Moore, sassofonista americano trasferito da anni in Olanda. Quando un insegnante è un improvvisatore, è inevitabile il contagio. L’allievo sblocca dei codici che gli permettono di comprendere un genere così spigoloso come il free e molto spesso di usarlo come linguaggio espressivo. Custodisco gelosamente ricordi di lezioni che avrebbero fatto impallidire i nostri “professori” ma che hanno rappresentato un nuovo punto di partenza per me e tutti gli altri studenti. I centri di riferimento che io ad ora conosco bene sono ad Amsterdam, che ha una scena free molto attiva (collettivo Doek) e Arnhem, che ne ha una molto giovane, tra cui milita anche un chitarrista italiano.
Prima di incontrare Valerio eravamo impegnati con la stessa band a suonare in una rassegna che vedeva ogni sera avvicendarsi degli ospiti diversi. Qualche giorno prima delle date ci veniva comunicato chi ci sarebbe stato, noi preparavamo i brani per poi incontrarci sul palco. Così abbiamo conosciuto Dodi Battaglia, Massimo di Cataldo, Alexia, Paolo Vallesi, Ivana Spagna. Una sera tra gli ospiti figurava anche Valerio Scanu. La serata è andata benissimo, la ricordo ancora bene. La sinergia sul palco era tangibile e Valerio stesso prese del tempo per ringraziarci e farci dei complimenti. Per il momento la cosa finì lì. Qualche mese dopo, siamo stati contattati dalla produzione di Scanu. C’erano delle audizioni per formare la sua nuova band. Anche durante l’audizione l’atmosfera che si respirava era densa di energia. Dopo qualche giorno abbiamo ricevuto la comunicazione che eravamo stati scelti.
Cambiando molto la situazione musicale, come cambi il tuo modo di suonare e qual’è stata la cosa che più ti ha spiazzato nell’affrontare questa nuova situazione ?
Dall’inizio dei miei studi ho sempre tenuto in grandissima considerazione la pertinenza stilistica. La cosa che mi ha spiazzato di più è stato proprio prendere coscienza di una cosa all’apparenza così scontata come l’esistenza di diversi vocabolari musicali. Bisogna rispettare i linguaggi da utilizzare ed ovviamente prendere dimestichezza con tutti è un percorso che tiene impegnati per tutta la vita. Ciò richiede un lavoro di consapevolezza musicale ma soprattutto personale. E’ come imparare nuove lingue. Dapprima il vocabolario è semplice, poi col tempo migliora la pronuncia e il numero di parole che si conosce, fino ad essere in grado di esprimersi indipendentemente negli stilemi che contraddistinguono questa o quella cultura.
Luogo comune vuole che i jazzisti non sappiano suonare altri generi al di fuori del proprio. Secondo te è del tutto falso oppure c’è qualche forma di verità ?
Beh, ad essere onesti, io ho fatto il percorso al contrario. Ho iniziato come batterista rock e metal. Dopo le band giovanili mi sono avvicinato anche all’hard rock, strizzando l’occhio al punk (ci sono dischi che mi incastrano ).
Appena ho iniziato a studiare ho scoperto (con molta fatica) che la batteria aveva un ventaglio sonoro molto più ampio di quello che io ero solito utilizzare. Per ragioni didattiche ho studiato jazz. E’ stato come scoprire un nuovo universo dove potevo esprimere una parte inedita di me stesso. La passione cresce negli anni di pari passo con la consapevolezza musicale e personale.
Ciò non ha comunque tolto la difficoltà di imparare un nuovo linguaggio che richiede anni di dedizione, ascolto e immedesimazione. Per questi motivi, capisco chi decide di dedicarsi solo al jazz, non allenando più l’espressività in altri generi. Ma ciò è vero anche al contrario. Molti batteristi pop, rock o metal avrebbero difficoltà a suonare altri generi.
Cambiando molti ambienti lavorativi, come gestisci il tuo suono e la scelta degli strumenti da usare ? Utilizzi particolari trucchi per l’accordatura ?
La prima cosa è sicuramente la scelta dello strumento. In ambiti lavorativi pop-rock prediligo misure più grandi ed accordature basse. In generale ascolto il repertorio e cerco di avvicinarmi il più possibile alla giusta palette sonora.
In ambiti jazz prediligo set con misure più piccole. Anche qui il contesto determina accordatura e composizione del set. Posso usare una cassa da 18” con pelle sabbiata e accordatura alta se voglio avere una nota da suonare con il piede. Oppure una trasparente con accordatura bassa per avere il suono profondo tipico di quelle misure.
La scelta degli altri pezzi e la loro accordatura varia anch’essa secondo cosa e soprattutto come voglio suonare.
Nell’ultimo disco degli Scape ad esempio volevo un impasto più solido con gli altri strumenti, accordando il set da 3 pezzi in Fa maggiore, la tonalità che in media si sposava meglio con la maggior parte delle composizioni.
Con Scanu mi concentro di più sulla profondità dei tom e timpani, senza nessuna altezza riconoscibile ma con un suono omogeneo.
Suoni molto in contesti sia jazz che pop, campi che negli ultimi anni hanno avuto una forte connessione e contaminazione con la musica elettronica. Tu che rapporto hai con l’elettronica applicata al set ?
Ne sono un fan assoluto. Spesso l’ho integrata nel set acustico, sia tramite trigger che tramite pad. Ultimamente sto provando ad integrarla così da costituire un allargamento delle possibilità sonore. Questo richiede una competenza anche teorica che al momento non ho. Per cui sto studiando per capire come ottenere ciò di cui ho bisogno.
Sì, ho usato un charleston da 21″ … Sì, hai capito bene, da 21″. Volevo un suono cicciotto per il groove che avevo in mente. Ho usato due ride molto leggeri (Istanbul special edition jazz ride e Bosporus traditional) li ho provati, mi è piaciuto molto e li ho usati anche in un altro disco. Ho usato anche una ciotola di ottone che in realtà è di mia madre, ed anche un rullante Dixon profondo 3,5″ e posizionato sottosopra, con il lato della cordiera messo sopra.
Nei Bravo Baboon talvolta ti ho visto suonare con set molto compatti come numero di pezzi. Scelta voluta o più dettata da fattori esterni ?
Scelta assolutamente voluta e in continua evoluzione. Mi piace ricercare soluzioni avendo a disposizione set compatti e comunque molto versatili. Ridurre il numero dei pezzi vuol dire aumentare la dose di creatività per trovare soluzioni efficaci e di supporto, elemento che ho capito essere cruciale per essere soddisfatto di una sessione musicale.
Come sta succedendo sempre più a livello mondiale, la vostra proposta jazz incontra anche echi di musica più electro. A livello batteristico ho sentito che tieni il rullante molto basso di accordatura stile “panettone” e poggi accessori sui piatti. Cosa o chi ti ha ispirato questo approccio nella scelta dei suoni ?
Le radici di questa tendenza sono state piantate una decina anni fa, in tempi non sospetti. Durante gli studi al Saint Louis andai ad una masterclass di Alessandro Gwis con Michele Rabbia alla batteria. Ero nel mezzo dell’euforia della didattica: tutto doveva essere oggettivato e ligio alle regole. Entro in sala e vedo il timpano di Rabbia coperto da un drappo rosso. Non riuscivo a capirne il senso musicale. A un certo punto ha tirato fuori dei dischi di metallo che ha poggiato sul timpano ed ha cominciato a suonarli integrandoli nei suoi pattern; stava ancora suonando “la batteria”? Se no, allora cos’era quello? Non erano “percussioni”. Tutto ha risuonato inconsciamente in profondità, restando a sedimentare per anni, fino a che trovando il terreno pronto, è sbocciato. Nel frattempo infatti, la tendenza della cosiddetta “batteria preparata” ha preso sempre più piede e dopo un periodo di incubazione mi ha trovato pronto ad includerla nel mio drumming. Seguire Mark Guiliana, Zach Danziger, Marcus Gilmore, Nate Wood (per nominarne solo alcuni) è stato fondamentale in questo processo.
Il rapporto con la batteria
Come hai iniziato a suonare la batteria ? Quali sono stati i tuoi idoli e punti di riferimento ?
Quando avevo più o meno 5 anni il mio gioco preferito era andare da mia nonna e chiederle “nonna mi prepari la batteria?”. Quindi lei prendeva tutte le pentole e me le sistemava sul tavolo e poi, con la pazienza dei nonni, mi avrebbe ascoltato per ore. Il bollilatte era il mio preferito, i cucchiaini le bacchette perfette. Ed in più muovere le pentole dopo averle colpite produceva altri suoni!
Ho ricevuto una batteria giocattolo con la quale ho registrato i miei primi concerti: i più grandi successi italiani dell’inizio degli anni ’90 in versione batteria e voce. Io ero nello stesso tempo il presentatore, il batterista, il cantante e il pubblico.
Dopo di questo, il nulla. La batteria è uscita completamente dalla mia vita. Per rientrarci prepotentemente quando avevo 18 anni.
“Sentivo” che volevo suonare, ne avevo bisogno quasi fisico. Ricordo ancora l’elettricità al pensiero di toccare delle bacchette e sedermi dietro un set. Sono riuscito a soddisfare questo bisogno nei laboratori musicali della mia scuola superiore. Li ho formato le mie prime rock-bands e solo a 23 anni ho deciso di lasciare l’università ed iscrivermi al Saint Louis per avere anche una letteratura dello strumento che evidentemente mi mancava.
Rappresenta il legame con il mondo dell’arte, la via di accesso verso la creatività. Studiare batteria mi ha insegnato l’importanza della disciplina e suonarla l’immensa bellezza del fluire. Rappresenta uno scopo, una direzione ma anche un punto di partenza, un punto di contatto che aderisce a ciò che sono in un determinato momento della mia vita e mantiene salda la mia identità.
Il percorso didattico
Nel corso della tua storia ti sei ritrovato nella prestigiosa scuola romana “saint louis” dapprima come studente e successivamente come musicista per varie formazioni legate a questa scuola, e talvolta anche come didatta. Puoi descrivere il tuo percorso all’interno della scuola ?
Il percorso al Saint Louis è stato sicuramente cruciale nella mia formazione batteristica e musicale. E’ iniziato semplicemente da zero, non ho neanche fatto il test di ammissione. Non avevo mai studiato altre materie e avevo imparato ciò che sapevo fare sulla batteria solamente ascoltando una certa tipologia di dischi.
Volevo avere una consapevolezza profonda e in generale sono il tipo di persona che non ama le scorciatoie. Iniziare dall’anno chiamato preparatorio era la scelta più intelligente.
Inutile dirti che fu uno shock: solfeggio cantato? Armonizzare bassi classici? Trascrizione di soli di altri strumentisti? La chiave per me è stata sempre tenere presente l’obiettivo finale, cioè diventare un musicista e non un batterista. Sentivo che avere competenze armoniche e teoriche sarebbero state armi potenti al servizio del parallelo sviluppo del mio drumming.
Ho scelto il percorso multistilistico, che come immaginavo è stato sempre ricchissimo di stimoli. Alla fine degli anni pre-accademici dovevo decidere se iscrivermi al triennio di jazz o di popular music. La mia passione per il jazz suonato non era ancora ai massimi, ma riconoscevo che didatticamente affrontare le sfide che questo stile pone davanti ai batteristi mi avrebbe permesso di scendere più in profondità nella mia consapevolezza dello strumento. In fondo era quello che avevo sempre voluto: non avere filtri tra ciò che la mia mente musicale pensa e quello che il mio corpo fisico riesce a fare. Ho scelto quindi il triennio jazz, con Gianni Di Renzo come insegnante.
Beh, per circa 6 mesi non riuscivo neanche a tenere in mano le bacchette. Tutte le certezze che avevo venivano demolite da Gianni che mi proponeva un approccio diverso. La cosa che mi diceva più spesso era “Morè, fai esercizi che io non penso di riuscire a fare, poi quando suoni ne utilizzi il 10%. La musica dove sta??”.
Il suo spessore musicale e la sua personalità sono state fondamentali in quel periodo della mia educazione. Ho tenuto duro, perché dentro di me riconoscevo che quella era una grande verità che io per inesperienza avevo perso di vista. Mi sono dovuto reinventare, ma a questo punto hai elementi a sufficienza per unire i puntini e vedere quali sono stati i miei passi futuri.
La copertina della tesi
Hai studiato al conservatorio. Pensi che questo percorso sia indicato per chi voglia studiare batteria e che formi adeguatamente, o è semplicemente un valido “pezzo di carta” ?
Domanda spinosa. Il rischio del conservatorio è il rovescio della medaglia della “accademizzazione”, cioè l’appiattimento. Finisci gli studi che conosci infinite applicazioni del Syncopation ma sul palco non rendi.
Allo stesso tempo penso sia importante affrontare un percorso di studi che sia anche valido legalmente, ma la scelta del dove deve necessariamente ricadere sul docente che si avrà. Soprattutto nella specializzazione, si ha più bisogno di un mentore anziché di un insegnante.
Alla base di tutto deve esserci un profondo lavoro di autoconsapevolezza, musicale e personale, che permette di affrontare un percorso di studi filtrando gli input e prendendo solo quelli che sono in quella fase necessari.
La tua tesi di laurea al conservatorio era sul “melodic drumming”. Penso che sia un argomento molto interessante e che effettivamente ha una sua bella storia ed evoluzione; mi vengono in mente il modo d’intendere la melodia sul drumset batteristi come Max Roach o Ari Hoenig, piuttosto che Terry Bozzio o Gavin Harrison. Cosa ti colpisce di questo aspetto del drumming ? Come cerchi di coinvolgere questo argomento nel tuo linguaggio?
La caratteristica più importante di questo aspetto del drumming è la differenza di profondità di connessione che permette di ottenere con gli altri musicisti. Sin dagli inizi mi accorgevo che mi veniva spontaneo suonare insieme agli altri, non “accompagnarli”. Volevo interagire ed esplorare, vedere dove andavamo a finire. Questo approccio non può per definizione avere un drumming “standard”. Il back beat a volte può essere un ostacolo o un’ancora, dipende da cosa ci si costruisce intorno. Cosa poteva guidarmi allora? La melodia. All’inizio provavo a seguire i riffs e sottolinearli nei miei pattern. Con la crescita della sensibilità artistica è cresciuta anche la sensibilità musicale, per cui è stato l’approccio generale a mutare. Non vedevo più la batteria come un unico set, ma come diversi strumenti indipendenti e autosufficienti che potevano coesistere e compensarsi per diventare qualcosa di organico.
Hai citato Max Roach e Ari Hoenig. Loro sono stati fondamentali in questa fase del mio percorso. Dapprima Roach: melodia intesa come ripetizione, traslazione e sviluppo di cellule ritmiche. Poi Hoenig: esecuzione di melodie esatte, esplorazione di ogni singolo componente del drumset per tirarne fuori tutte le potenzialità. Da qui ad integrare oggetti sui piatti, ciotole di rame o pezzi di ferro il passo è relativamente breve. Diventa semplicemente una scelta di colori, così come un pittore sceglie la sua palette.
L’arte e la ricerca prima della musica
Cosa rappresenta per te l’arte e come la ricerchi ? Questa ricerca influenza il tuo modo di suonare o d’intendere la vita ?
L’arte rappresenta il più alto tentativo di apoteosi da parte dell’uomo. Non è un vezzo, è un bisogno. L’artista cerca, ricerca, ha bisogno di dare forma e esorcizzare i demoni che umanamente ci caratterizzano. Questo percorso risuona con le altre persone che in maniera più o meno consapevole condividono gli stessi demoni.
Ricordo studiare storia dell’arte a scuola: una raccolta di dati, di caratteristiche che definiscono un periodo. Poi ho iniziato a chiedermi “si, ma perché questo o quell’artista ha sentito il bisogno di fare quel quadro, scrivere quella poesia, scolpire quella statua? E perché in quel modo diverso?”. Le risposta hanno cambiato diametralmente il mio approccio all’arte e dissotterrato completamente il collegamento che questa ha con la vita reale.
La sensibilità dell’artista lo rende capace di raggiungere stadi più alti di consapevolezza, diventando un tramite. Come detto da Mark van Roon in una lezione “we bring feelings into the real world”. Niente di più vero.
A questo punto l’accademismo di cui ero ovviamente preda ha perso le sue basi. Tutto si è piegato ad uno scopo solo: comunicare. Quando suono voglio comunicare, con i musicisti, con il pubblico e ancora prima con me. Così si forma l’energia che lascia tutti soddisfatti. Il resto è un’esibizione una competizione, e per finire con un’altra citazione “competition are for horses, not artist”.
Con il senno di poi, ti direi che è la cosa più importante. Per me rappresenta il centro del mio drumming solo da poco tempo. Ho preferito approfondire la mia consapevolezza dello strumento per poi dedicarmi a definire degli elementi che combaciano perfettamente con le esigenze artistiche che ho maturato negli anni.
Di nuovo, no scorciatoie. Avrei potuto dedicarmi di più al sound lasciando indietro la consapevolezza dello strumento. Così sarei stato forse più appetibile ma avrei avuto accesso a meno ambiti musicali.
Frank Zappa diceva che “senza deviazioni dalla norma non c’è progresso”. Batteristicamente e nella vita quotidiana quali scelte hai fatto per deviare dalla norma ? Quanto conta per te progredire ?
Questa citazione potrebbe diventare il mio motto preferito, la descrizione del mio percorso musicale e di vita.
Ricordo perfettamente, intorno ai tredici anni, una sensazione di terrore che mi pervase. Avevo realizzato per la prima volta nella mia vita che il tempo che avevo a disposizione era limitato. Non era tanto questo a terrorizzarmi, ma il pensiero di passare questo tempo facendo qualcosa di cui non mi interessava nulla. Sarebbe stato uno spreco imperdonabile. Di base sono sempre stato un ragazzo molto curioso, non ho mai avuto un solo ambito di interesse.
Crescendo ho capito che il metodo migliore per sentirmi vivo era di uscire dalla mia comfort zone. Solo fuori da lì sarei costretto a ricorrere alla mia essenza per trarne l’energia necessaria ad affrontare una determinata situazione. Ed ogni volta che lo fai ne esci temprato e arricchito.
Ricordo una masterclass di Horacio Hernandez. Raccontò un aneddoto: “io ho un problema, vengo punto da un insetto che inietta un veleno che mi rende impaziente di raggiungere un nuovo livello sulla batteria. Quindi passo tutto il tempo a lavorare in quella direzione. Il problema è che questo insetto si accorge di quando ho finito e…mi punge di nuovo!”. Finito il Saint Louis sono stato chiamato ad insegnare. La mia felicità era alle stelle; avevo iniziato lì da zero ed ora potevo passare dell’altra parte. C’era la possibilità di fare un tirocinio di insegnamento di 6 mesi all’estero. Termine lungo per chiedere una “sostituzione”. Dovevo scegliere se restare o andare avanti. Avevo paura di sedimentare, sentivo che continuare ad investire era doveroso. Mi sono trasferito in Danimarca facendo una delle esperienze più belle e formative della mia vita, musicale e personale. Al ritorno sono stato di nuovo contattato dal Saint Louis. Ero di nuovo felicissimo. Però avevo la possibilità di studiare a Groningen…Ho chiesto un colloquio con il direttore, spiegandogli sinceramente la situazione. Volevo mettermi alla prova, sbloccare altre parti di me che avrebbero finito col cementarsi se fossi rimasto fermo. Non le avrei più potute raggiungere.
Non è sempre facile, anzi. Ogni volta bisogna demolire delle convinzioni che ci si è fatti per fare posto ad una nuova sovrastruttura, un aggiornamento di sistema. E questo fa male, porta insicurezza e paura che possono essere controllate solo con un’importante dose di fiducia in se stessi. E ovviamente il pregustare l’adrenalina di una nuova sfida.
Se prima le collaborazioni avvenivano solo a livello locale, ora si ha la possibilità di registrare e collaborare anche a distanza. A te è mai capitato ? Allargandosi le possibilità, si allarga anche la concorrenza. Perché qualcuno dovrebbe scegliere te come batterista di un progetto ? Cosa pensi che ti possa rendere unico ?
No, non mi è mai capitato di registrare a distanza, ma è anche ovvio perché è un aspetto del mestiere che non ho mai coltivato come si deve.
Ciò che mi caratterizza batteristicamente è la capacità di ascoltare e di interagire, attingendo a differenti vocabolari per mantenere pertinenza stilistica. La prima domanda che mi pongo è “di cosa ha bisogno questo brano da parte mia?”. Questo approccio mi allontana dalla tentazione dell’esibizionismo (tanto caro a noi batteristi) e mi consente di instaurare una comunione d’intenti con gli altri musicisti.
Com’è cambiato il lavoro ed in che direzione si muoverà il lavoro del musicista in futuro ?
Sono cambiate le dinamiche di contatto. E’ sempre più difficile trovare delle audizioni che sempre di più avvengono per “intercessione”. Si viene nominati da interni e successivamente convocati.
Assieme a questo, il famoso multi-tasking è diventato praticamente standard. Avere competenze anche in altri ambiti, come l’utilizzo di software musicali, video, audio può essere un fattore decisivo.
La selezione naturale è innescata dalla passione che si ha in ognuno degli ambiti che si propone. Dalla passione deriva la credibilità e quindi l’interesse di chi può darci lavoro.
Ci sono mai stati momenti in cui volevi lasciar perdere ?
Hai fatto bene ad usare il plurale, perché ce ne sono stati eccome! Non è sempre possibile riuscire a vivere di sola musica, soprattutto suonata. Si può magari dire di farlo, ma poi chiedere i soldi ai genitori. Bisogna scendere a compromessi (economici e non) e rinunce, il tutto per cifre che spesso non corrispondono alla quantità e qualità di risorse investite. Nella vita di ognuno di noi ci siano dei momenti di salto di pensiero. Subentrano delle esigenze che è sempre più difficile ignorare. Ho avuto forti momenti di crisi, dove mi chiedevo se avessi fatto la scelta giusta. La pressione sociale gioca un ruolo importante, anche se l’ho sempre neutralizzata con l’impegno e la dedizione. Identifichiamo la musica con il successo, suonare in palchi grandi, fare cose che poi possiamo far vedere agli altri. Questa dinamica è pericolosa e in realtà distante dalla musica stessa. Ho dovuto chiedermi quale fosse il mio perché e cosa rappresentasse il successo per me. Ecco, il successo per me vuol dire essere felici e in pace con se stessi. Avere la possibilità di godere della vita. Essere felici ogni volta che si tocca il proprio strumento. Quando uno solo di questi fattori per qualsiasi motivo non è presente, allora parlerei di insuccesso. Il resto sono solo rimasugli di falsi miti.
Alla luce di questo, avere altri interessi oltre alla musica non mi suona più come un fallimento, ma come un nuovo ibrido, una fonte di stimoli che inevitabilmente si ripercuoterà nella mia creatività.
Appartengo alla schiera dei sostenitori della tecnologia. Se utilizzata nelle giuste dosi può essere un’arma potentissima a nostro favore. Ovviamente guardare i musicisti dal vivo è un’esperienza diversa dal vederli in un video. Si percepiscono l’aura di quella persona, il carisma e l’energia. Dai video però si possono prendere infiniti spunti, si può fare ricerca. Concentrarsi su aspetti che non hanno ragione di esistere durante un live. Quando vedo Mark Guiliana dal vivo, non mi soffermo certo a pensare alle suddivisioni che utilizza. Ascolto il tutto, assorbo l’atmosfera. Poi torno a casa e dico “ma come ha fatto a fare quella cosa?”. Ed ecco che subentra l’internet.
Sei un ragazzo che lavora molto a più livelli. Ti vorrei chiedere qualcosa riguardante la parte più lavorativa di questo lavoro. Come elabori il tuo cachet rispetto al lavoro proposto ? C’è sempre trasparenza in questo mondo oppure talvolta ti sei sentito sfruttato ?
Le voci che compongono l’elaborazione del cachet sono diverse. Innanzitutto ho deciso che il principale spartiacque per accettare un lavoro è “Mi piace? Sarei felice di esserci impegnato?”. Ho maturato questa scelta dopo essermi trovato in forte disagio dietro il mio strumento. Questo non deve succedere.
Scegliendo quindi solo cose che mi motivano, è più facile essere elastici a livello di cachet. Il tutto senza mai scendere al di sotto di una soglia che mi farebbe comunque sentire in imbarazzo.
Sei te in prima persona che ricerchi nuove collaborazioni oppure aspetti che le occasioni si presentino da sole ?
Negli ultimi tempi ricerco le collaborazioni in maniera più attiva rispetto al passato. Ciò è dovuto ad una consapevolezza maggiore nei miei mezzi. Ora so (meglio di prima) cosa posso offrire e quindi ha senso propormi per collaborazioni. Così è nata tra l’altro la fresca collaborazione col progetto Scape dove suono con Giovanni Candia, Andrea Colella e Gianluca Massetti. Sapevo che Giovanni cercava un batterista e conoscevo in linea di massima il tenore delle sue composizioni. Mi reputavo adatto a provarci per cui l’ho chiamato e mi sono proposto per un’audizione. Il tutto si è concluso con un disco registrato dopo un paio di mesi ed in uscita il 9 Novembre di quest’anno.
Sei un maestro di batteria. Quali valori cerchi di dare ai tuoi allievi ? Quali metodi consigli e come i tuoi maestri ti hanno influenzato in questo tuo lavoro ?
La prima cosa che cerco di trasmettere è la curiosità e quindi la consapevolezza. La batteria è uno strumento molto fisico, in cui la coordinazione mette davanti a sfide che quasi esulano dalla musica. Sembrano più esercizi di concentrazione.
Nel caso di allievi giovani, utilizzo lo studio e la pratica come una metafora per raggiungere nuovi obiettivi. Trasmettere la disciplina necessaria a sbloccare un esercizio, la pazienza di trovare la via adatta per farlo, l’interesse per cose nuove e diverse e l’adrenalina di sedere di fronte ad altre persone sono cardini imprescindibili del mio insegnare. Magari una parte di loro lascerà la musica in favore di altri interessi, ma si porterà via un bagaglio che è un paradigma adattabile a tutte le situazioni della vita. Davide Piscopo mi ha insegnato la metodicità. Gianni di Renzo la curiosità e la personalità. Joost van Schaik l’appartenenza stilistica e la dedizione all’osservazione. Steve Altenberg l’approccio psicologico dietro lo strumento.
Quali sono le caratteristiche principali che deve avere un ragazzo adesso per lavorare ?
I batteristi internazionali che seguo e che mi ispirano sono sicuramente i già citati Mark Guiliana, Nate Wood, Marcus Gilmore, Zack Danziger a cui devo aggiungere il mio idolo Brian Blade. Morten Lund, Jeff Hamilton, Ari Hoenig, Dan Weiss e Arthur Hnatek giovano delle mie innumerevoli views su YouTube e Apple Music.
Nel panorama italiano seguo con moltissimo interesse Emanuele Della Cuna. Il livello raggiunto da Nicolò di Caro nella batteria drum’n’bass è impressionante. Valerio Vantaggio ha un suono ed un linguaggio che mi impressionano ogni volta, così come Roberto Pistolesi. Il suo approccio all’improvvisazione e la sua consapevolezza sono sempre un grande stimolo.
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