La ricerca di Ugo Rodolico merita un doveroso approfondimento. E’ senza dubbio una scelta molto approfondita e ben argomentata, meritoria nell’esecuzione e nelle intenzioni. Culturalmente molto avanzata ed artistica nel significato più intrinseco della parola. Si inserisce in un solco già percorso ma forse ancora poco conosciuto. E’ una ricerca idiomatica e fonetica, dove la batteria è uno strumento per indagare sulle nostre origini e tradizioni, ma anche per comprendere meglio il presente ed il futuro più prossimo.
Scandagliando la rete mi sono imbattuto in un suo video dove traduceva in tamburi, una poesia del grandissimo Totò. Ma analizzandolo meglio, quello che in un primo momento mi appariva come un tentativo di impressionare lo spettatore del web, mi si rivelava come uno studio assai affascinante che allargava di molto i confini del nostro strumento. La batteria e la trascrizione del solfeggio ritmico venivano posti come strumenti per capire cosa si celi dietro i nostri fonemi e l’evoluzione del nostro linguaggio parlato.
Ugo (classe 1977) nasce a Napoli, dove sin da subito intraprende gli studi musicali. Più avanti studia batteria con Sergio Di Natale iscrivendosi, poi, al Conservatorio di Salerno G. Martucci. Sotto la guida del maestro Paolo Cimmino prende parte ai corsi di Percussioni Classiche ed entra a far parte dell’ensemble “Percussion Drumming” diretta dallo stesso Cimmino. Suona come percussionista presso il Teatro G. Verdi di Salerno e collabora con Mike Moran e Amit Chatterjee e altri jazzisti de panorama italiano oltre al suo gruppo Illogic Trio
Ognuno di noi ha una “carta d’identità musicale” costruita nel tempo grazie agli ascolti, agli incontri, alle coincidenze. Io ricordo un’adolescenza passata nella camera di un mio zio, piena zeppa di vinili e cd. Mio zio suonava la chitarra e la batteria. Un giorno mentre cercavo un disco dei Pink Floyd tra gli scaffali di un’enorme libreria trovai nascoste nella polvere un paio di vecchie bacchette di legno e una serie di fogli pentagrammati con alcuni appunti e segni “strani”. Da quel giorno fu la curiosità e forse l’esigenza insita in ogni ragazzo di sprigionare energia vitale a guidarmi nello studio della musica e in particolare degli strumenti a percussioni. Entrai pochi anni dopo in conservatorio dove feci la scoperta del mondo delle percussioni cosiddette “classiche” e cominciai e studiare privatamente la batteria, strumento a percussione che ho sempre prediletto, con Sergio di Natale, noto musicista e batterista campano.
Oggi, oltre ad essere la mia professione (da un duplice punto di vista: didattico ed esecutivo), non può che rappresentare una parte espressa del mio inconscio. Qualcosa di me che non conoscevo e che ho tirato fuori pian piano negli anni: un’aspetto creativo della vita, uno dei tanti certo, ma molto importante.
Centro importante del tuo studio e della tua ricerca sonora è rivestito dal solfeggio ritmico. Cosa rappresenta per te il solfeggio e come hai sviluppato questa spiccata sensibilità verso questo argomento ?
Il solfeggio ritmico è la base della codificazione della musica. Quando insegno ai miei allievi, o dirigo le piccole orchestre degli studenti di musica delle scuole medie ad indirizzo musicale, la prima cosa che faccio notare loro è l’importanza della lettura e in particolare della lettura ritmica, del valore delle note distribuite in una metrica e in una pulsazione prima ancora che della loro altezza. Credo che un progressivo bisogno di approfondire il solfeggio ritmico sia scaturito da un difetto: durante la mia adolescenza ero affetto da “balbuzie”. La mia sintomatologia non era estremamente grave ma abbastanza invadente da rendere ogni interrogazione in classe un piccolo inferno. Ricordo che prolungavo certi suoni o evitavo certe consonanti o intere parole come stratagemma per mascherare il problema ma non c’era nulla da fare: prima o poi arrivava il momento delle estenuanti ripetizioni, dei prolungamenti dei suoni che somigliavano a versi di foca e delle totali interruzioni che diventavano rapidi preludi di silenzi imbarazzanti. All’epoca non avrei mai potuto immaginare che vent’anni dopo mi sarei trovato in classe a scegliere le stesse consonanti o sillabe più appropriate questa volta non per nascondere un difetto ma per portare alla luce il senso del ritmo e del tempo nei miei allievi percussionisti e batteristi. Gli stessi suoni di parole (detti “foni”) con cui facevo a botte mi sono oggi indispensabili per insegnare un “altro solfeggio” della musica ai ragazzi che si accostano agli strumenti a percussione nella Scuola Media ad Indirizzo Musicale.
Il konnacol è il solfeggio ritmico tipico della musica indiana. T’ispiri a questa tecnica per la tua ricerca oppure hai sviluppato una tecnica più personale ?
Non ho studiato la musica indiana, soltanto recentemente sto cercando di approfondire il konnakol con un maestro che ha a che fare con questo tipo di linguaggio ritmico da 20 anni e che si chiama Agostino De Marco. Ricordo però che fin dai tempi del conservatorio ero affascinato dall’uso delle sillabe che caratterizzano questa musica perché il mio maestro di strumenti a percussioni, Paolo Cimmino, ne faceva largo uso in molte sue composizioni ed aveva portato avanti una ricerca che univa il konnakol con la pratica musicale del tamburello del sud Italia.
La mia ricerca però si discosta dalla musica indiana. Da essa prende due concetti fondamentali e li sviluppa alla luce della nostra musica, quella occidentale: il linguaggio parlato come mappa mnemonica del ritmo e dell’esecuzione ritmica. La combinazione non casuale di sillabe come strumento di consapevolezza del gesto e come fonte di fluidità e armonia nell’esecuzione musicale.
Il tuo slogan è “se puoi parlarlo, puoi suonarlo. Comprendere l’uso del solfeggio ritmico attraverso l’uso del linguaggio parlato”. Questo discorso mi fa pensare che la tua concezione musicale si apra anche verso orizzonti sonori non per forza musicali, ma che permeano attorno al suono. Cos’è il suono per te ?
Il ritmo musicale deriva dalla parola, dal linguaggio parlato. Prima ancora dei “modi ritmici”, che nel medioevo rappresentavano i “progenitori” della scrittura ritmica moderna, era il testo a dare l’indicazione ritmica di qualsiasi brano vocale. Testo e musica erano inscindibili fin dai tempi della tragedia greca. Il solfeggio che si studia oggi deriva da una concettualizzazione matematica del linguaggio parlato ed è figlio dell’era cartesiana, del “cogito ergo sum”. Riappropriarsi del linguaggio parlato nella sua primitiva caratteristica di puro suono scevro dal significato concettuale, significa riappropriarsi del “suono della vita”, riappropriarsi del corpo, del movimento da cui ogni suono ha origine. Il suono quindi come movimento primigenio: movimento degli organi fonatori di un bambino che grida venendo al mondo, movimento ritmico del cuore, movimento del corpo, alternanza di parti corporee in movimento. Si capisce che prima ancora di comprendere la suddivisione matematica di un solfeggio, il bambino, l’allievo che vuole avvicinarsi alla musica, ha bisogno di sperimentare il suo corpo, la sua voce, le possibilità ritmiche della sua voce, l’estensione della sua voce alle sue braccia, alle sue gambe, a tutto il corpo, in quello che oggi molti chiamano “gesto musicale” che è un gesto corporeo totale e che nasce dal movimento più caratteristico della specie umana: il linguaggio parlato.
Ti cito testualmente “Avere consapevolezza del proprio linguaggio significa avere consapevolezza della propria musica. Il solfeggio come l’abbiamo sempre visto cambia totalmente caratteristiche. Ogni lingua individua figure ricorrenti diverse da lingua a lingua”. Puoi spiegare questo concetto ?
Ci sono numerosi studi che vertono sulla ricerca di parallelismi tra ritmo musicale e linguaggio parlato. Il musicologo Gerald Abraham nel saggio “The tradition of Western music.” Berkeley, CA: University of California Press, scrive :” “The nature of a people’s language inevitably affects the nature of its music not only in obvious and superficial ways but fundamentally” (1974, p. 62). Cosa significa? Significa che se traduciamo ritmicamente il linguaggio parlato di vari popoli, ritroviamo alcune figure ritmiche ricorrenti. Per esempio sulla scorta di questa asserzione di Abraham, Nicholas Temperley della University of Illinois at Urbana-Champaign e David Temperley della Eastman School of Music, University of Rochester hanno condotto uno studio sulla ritmica della lingua inglese scoprendo che a causa della natura ritmica della maggior parte delle parole del vocabolario inglese anche la corrispettiva musica, dall’antichità all’hip-hop di oggi, è costituita in prevalenza da una figura ritmica corrispondente a semicroma-croma con il punto, figura chiamata “Scotch Snap”. Ogni lingua di ogni popolo, o dialetto o slang individua figure caratteristiche. Per esempio, sto facendo una ricerca di questo tipo sulla lingua e sulla poesia napoletana e le figure ricorrenti che vengono fuori sono la terzina in tutti i suoi tipi di scomposizione e la quintina in tutti i suoi tipi di scomposizione: non a caso la tarantella napoletana ha caratteristiche ritmiche che si fondano sulla terzina.
Il tuo rapportare la musica allo slang che ci circonda e da come esso si evolva, mi fa pensare che il approccio alla batteria spazi anche nell’osservare come cambia il mondo fuori dal perimetro dei nostri tamburi. Come pensi che sia cambiata la musica osservando i cambiamenti sociali in Italia ?
La musica è in continua evoluzione. E’ uno specchio della società, di ogni diversa società in cui nasce e si sviluppa. Non riesco però a trovare oggi una musica che sia veramente italiana. Sarà l’effetto di una sempre più massiccia globalizzazione oppure l’effetto più palese e concreto della profezia di Pasolini da lui definita “mutazione antropologica”. Oggi non esiste più una precisa identità musicale di tipo nazionale. Tutto è di tutti e questo ha, come ogni cosa, dei vantaggi ma anche parecchi svantaggi. In generale penso che molti aspetti strutturali della musica come forma d’arte si siano esauriti da tempo, come a dire: tutto è stato detto. Forse invece sono ancora da scoprire nuove ed originali forme di fruizione, diffusione e ri-funzionalizzazione delle musiche della storia.
Hai messo in musica una poesia recitata da Totò. Questa idea molto bella mi ha fatto venire in mente alcuni esperimenti sonori fatti in precedenza da Marco Minnemann nel suo celebre dvd didattico, Michele Rabbia con alcuni brani di Carmelo Bene, oppure di altri video sparsi nella rete dove dei batteristi mettono in musica delle sequenze dei film. Come hai sviluppato questo video e da dove viene questa idea ? Lo riproporrai anche con altri musicisti ?
Ho trascritto una poesia di Antonio de Curtis in arte Totò e l’ho suonata sul drumset attraverso un procedimento che spiego bene in alcuni video sulla mia pagina facebook ( https://www.facebook.com/seloparlilosuoni/):
1) La distanza fra gli accenti tonici delle parole del primo verso determinano la velocità metronomica (89 alla semiminima) di tutto il testo.
2) La fisionomia di ogni parola determina le figure ritmiche inserite in un metro regolare 4/4.
3) L’intonazione determina la melodia ascendente/discendente e quindi la linea timbrica dei tamburi nel caso si voglia suonare su un drumset.
4) L’organizzazione metrica delle rime (incastri di rime baciate in strofe di quattro o cinque versi) determina la scelta della successione di frasi in domanda/risposta (tamburi parlanti).
Sto lavorando su alcuni testi e poesie di Raffaele Viviani grazie alla consulenza di alcuni attori napoletani. Sicuramente il punto di partenza è la ritmica e nella fase attuale sono ancora ad un livello di sperimentazione ma sicuramente questa prima idea porterà ad un livello di performance in cui i monologhi potrebbero essere suonati in duetto o in trio e quindi con strumenti melodici e armonici ma non più con la musica che accompagna il testo “melodicizzandolo”. Il testo rimane incontaminato con la sua intonazione declamata e la sua pulsazione “parlata”e determina con le sue strutture la musica che gli si sviluppa affianco non più “sotto” o “sopra”. D’altronde la grande ambiguità e velleità del melodramma è stata proprio quella di far rivivere la tragedia greca che era unione armonica di testo, melodia, ritmo, danza, scena… ma ben lungi il melodramma dall’aver compiuto questo sforzo visto che il linguaggio è ora piegato alla musica ora tiranno della musica…
Mi viene in mente un immenso dello strumento come Max Roach che mise un solo di batteria a musicare il celebre discorso di Martin Luther King. L’approccio stilistico e concettuale tra quel solo ed il tuo è differente, ma in entrambe le situazioni si esprime un modo molto articolato d’intendere la batteria. Ritieni Max Roach un riferimento o una delle tue ispirazioni principali ?
Non ero a conoscenza di questo solo sul discorso di M.L. King. In ogni caso di questi esperimenti sulla connessione tra musica, ritmo e linguaggio parlato ne ho trovati tanti in rete. Max Roach è un gigante della storia della musica e della batteria e sicuramente è stato un mio punto di riferimento imprescindibile quando studiavo e trascrivevo soli e comping nell’ambito della musica jazz. Penso anche ad un bassista americano che si fa chiamare Mono-Neon che suona il basso sui discorsi televisivi o su alcune interviste. Ripeto, di questi esperimenti ne ho trovati tantissimi ma la mia idea è duplice: portare queste ricerche ad un livello di performance artistica e scrivere una raccolta di 100 fraseggi batteristici completamente ispirata alle poesie, monologhi e film della mia terra e del mio paese: Italia e Napoli.
Stai pensando di portare dal vivo questi connubi tra voce e batteria ?
Si, come ho già detto sto pensando ad uno spettacolo con attori in cui tutti i monologhi e i testi poetici, le macchiette e tutto ciò che accade sul palcoscenico in forma di pura parola possa essere unito ad una esecuzione ritmica sul drumset ed anche con altri strumentisti. Un prodotto artistico che sia però anche didascalico e che coinvolga il pubblico nella vera essenza della poesia che come diceva Carmelo Bene “è risonar del dire oltre il concetto”
Ammetto di non essere assolutamente un grandissimo fan delle trascrizioni perchè spesso penso che possano appiattire l’estro e la personalità del musicista. Te che idea hai in merito alle trascrizioni ?
Credo che le trascrizioni siano importantissime nel momento in cui l’atto di trascrivere possa aiutare a portare fuori la propria voce. Nel caso specifico del percorso “Se lo parli lo suoni” è poi essenziale per scoprire i nessi e le relazioni tra la parola e il suo connotato ritmico.
Vieni anche dallo studio delle percussioni classiche. Questi studi come ti hanno influenzato nel tuo percorso batteristico ?
Lo studio delle percussioni classiche per me è stato un percorso fecondo di possibilità nuove da sperimentare sulla batteria. Non solo perché confrontando le tecniche di ogni strumento ho costruito un mio personale modo di suonare i tamburi ma perché conoscere i repertori ha allargato gli orizzonti culturali e sanato dentro di me quel pregiudizio che ancora oggi contrappone il cuore, l’istinto musicale, alla mente musicale, alla riflessione intelletuale. Non credo si possa più suonare al giorno d’oggi con verità e onesta prescindendo da un aspetto intellettuale, di ricerca, di studio.
Ugo insieme a Sergio Di Natale
Hai studiato con il Maestro Sergio Di Natale, pregevole musicista e didatta, tra le autorità massime delle modulazioni metriche applicate al drumset. Come ti ha ispirato il tuo percorso con lui ?
Sergio è stato per me il Maestro. La scoperta delle mie potenzialità. Oggi è un mio carissimo amico, uno dei pochi, e ancora, dopo tanti anni, ci confrontiamo non solo su aspetti musicali e tecnici dello strumento ma su tutto ciò che di “altro” costituisce la vita di un musicista. Abbiamo scritto recentemente a quattro mani proprio un libro sulla modulazione metrica dentro il quale ha riversato le idee di 20 anni di studio ed io ho cercato di tradurle ed ampliarle dal mio punto di vista. Uno di quei rari casi di sinergia umana.
Negli ultimi anni stanno aumentando gli esperimenti di percussione solistica. Secondo te da cosa è dipeso ?
Io penso solo all’onestà dell’atto creativo. L’onestà deriva dalla verità. Essere veri in musica significa accettarsi e conoscersi come esseri umani, e l’essere umano è una pluralità di cose, eventi, emozioni, sensazioni e pensieri. Quindi non saprei. E’ una domanda che sincerimente non faccio a me stesso e alla quale non saprei rispondere.
Hai un progetto chiamato Illogic Trio, dove proponete un jazz molto attuale e dalle tinte sonore che affondano in più campi sonori. Puoi parlarci di questo progetto e come nascono le vostre composizioni ?
Il trio nasce nel 2011 ed ha un disco all’attivo e un secondo album in arrivo. L’illogic Trio è stata la mia casa musicale, il luogo dove poter sperimentare la composizione condivisa; un contenitore dove le proprie idee diventano anche idee degli altri. Un perfetto luogo caratterizzato da due aspetti fondamentali: l’improvvisazione e la contaminazione intesa quest’ultima come “essere come si è, qui ed ora”.
Tutti i brani non nascono a tavolino o su uno spartito interpretato ma da un atto di ricerca costante, di costante rimodellamento di un’idea originaria che viene appunto condivisa, smontata e rimontata, veicolata attraverso le diverse esperienze dei tre componenti.
Hai fatto una ricerca approfondita anche nel metodo Orff. Pensi che sia una metodologia efficace per avvicinare i bambini verso la musica ?
Si, ho lavorato nell’ambito del metodo Orff per cinque anni affianco del Maestro Marcello Napoli portando avanti una sua rielaborazione dell’Orff-Schulwerk denominata “Parola-Gesto-Suono” da cui ho tratto e rielaborato molti spunti teorici e pratici. Ancora oggi credo sia una indispensabile metodologia per avvicinare i bambini e i piccolissimi alla musica perché è un percorso che si fonda su una grande verità ribadita più volte da Orff stesso (parafrasando):” la pedagogia musicale prima di fondarsi su esercizi musicali si fonda su esercizi linguistici”
Sei nato a Napoli. Cosa ha rappresentato per te questa città ?
Io sono nato a Napoli ma la mia famiglia di origine non ha radici campane. Ma in tanti anni Napoli e la sua cultura mi è entrata dentro in un modo particolare: come una città mai vista entra nell’animo di un viaggiatore. Ancora oggi Napoli ha su di me quest’effetto. Mistero e stupore. Amore e odio.
Oltre che essere un musicista, sei anche un didatta. Ora molta informazione passa attraverso i social e Youtube, mentre una volta si andavano a scoprire i musicisti guardandoli da vivo. Com’è il tuo approccio verso questa nuova tendenza ?
Devo ancora capire la mia posizione all’interno dei social. Sicuramente ci sono molti aspetti positivi della globalizzazione della musica e internet è uno strumento potentissimo di cui credo non abbiamo ancora piena consapevolezza. Però fondamentale al giorno d’oggi è riscoprire e rimodellare la performance dal vivo: credo sia di fondamentale importanza
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