Attivissimo nell’underground romano al punto tale da finire nel 2017 nella shortlist dei “migliori batteristi della scena alternativa” redatta dal MEI. Stefano Padoan da qualche mese risiede a Londra, desideroso di nuove avventure umane prima ancora che musicali.
A dicembre ho passato qualche giorno proprio nella capitale inglese. Ammaliato dalle tante bellezze che la città offre, guardavo spaesato la folla che assiepava il marciapiede. Non guardavo nessuno in particolare. Probabilmente pensavo ad altro. In lontananza vedo un ragazzo che primeggia nel panorama di varia umanità per un vistoso cappello giallo. Penso tra me e me “Ma tu guarda quello come assomiglia a Stefano”. Lui ricambia lo sguardo ed inizia a ridere. Realizzo in quel momento che il ragazzo che si presentava sotto all’immancabile cappello giallo era proprio lui.
In fin dei conti Stefano è così. Sempre sorridente, positivo e mai banale nei pensieri. Ci conosciamo da diversi anni, assiduo frequentatore dei negozi presso i quali ho lavorato e sempre presente ai momenti di convivialità dell’universo batteristico romano. Sempre con il sorriso, sempre con belle riflessioni. E tutto ciò si riflette nella sua musica, nel suo modo di esprimersi.
Semplicemente mi sono detto “se non ora quando!?”
Una volta finiti gli studi, portato avanti i vari progetti musicali e collaborazioni varie, mi sono guardato allo specchio e ho pensato che forse era questo il momento giusto per allontanarmi un pò da Roma e provare a fare un’esperienza che in fondo ho sempre avuto voglia di fare ma che per una cosa o per un’altra non ho mai fatto.
Che differenze hai trovato rispetto a Roma nel proporre musica e nella vita artistica in generale ?
Per quella che è la mia piccola esperienza al momento nella scena underground Londinese in realtà non ho visto moltissime differenze. C’è molto fermento, band di ogni tipo e genere, tutti con una gran voglia di esprimersi e di mostrare i propri lavori. Molto stimolante.
Vivere di musica a Londra è più semplice rispetto a Roma o nasconde insidie ?
Insidie nella musica ci sono e ci saranno sempre, qui come in Italia e come in qualsiasi altro posto del mondo sopratutto per chi propone musica originale. Londra è una città molto grande e di posti in cui poter suonare è pieno ma purtroppo se si propone musica originale si percepisce veramente poco a livello di cachet, forse addirittura meno che da noi, il che fa intuire che viverci è pressoché impossibile. Quello che va per la maggiore invece sono le così dette “Function Bands” ovvero cover band, band da matrimonio o per eventi privati, specializzate soprattutto in pop, rock, funk e dance music.
Hai avvertito un sentimento di comunità tra i musicisti inglesi oppure è un mondo individualista ?
Assolutamente un sentimento di comunità! Qui si usa molto organizzare eventi con non meno di quattro/cinque bands a concerto perciò il modo di conoscere musicisti, confrontarsi, fare amicizia quando si suona c’è. Per ora sono rimasto molto colpito e contento di questa cosa.
Nella città inglese come sono visti i musicisti italiani ?
Forse più che da noi qui si è abituati a vivere in un contesto multirazziale, perciò essere italiano o non, se sai suonare poco importa. È un aspetto che ho trovato molto simile al nostro modo di vivere la musica, perciò mi ci sento a mio agio.
Batterista per i MahDoh, Michael Lukes e John Canoe
Parallelamente a questo tuo periodo inglese, sta impazzando da qualche tempo il video dei MahDoh che ti vede dietro i tamburi. Come nasce la tua partecipazione a questo progetto?
Il progetto è nato qualche anno fa per gioco.
Una mattina ero nel mio studio che facevo pratica. In un momento di pausa, ho preso la chitarra acustica che un mio amico aveva lasciato in sala e senza alzarmi dalla batteria ho iniziato a tirare fuori alcune strofe e melodie, giusto piccole idee di pochi secondi, mentre mi accompagnavo con un groove tra cassa e charleston.
Sai quando entri una sorta di trans?
Appena mi sono reso conto che erano uscite delle idee simpatiche, orecchiabili e un po’ ironiche, ho contattato Olivia Volpi, cantante del progetto, con la quale in quegli anni avevo un trio jazz.
Sapevo che i “pezzi” le sarebbero piaciuti perché anche lei come me ama l’ironia, il non prendersi troppo sul serio ed entrambi non abbiamo pregiudizi di genere musicale o sonorità. “La musica se fatta bene è bella tutta” (cit. ) e noi, a modo nostro, ci proviamo.
Così dal gioco, che rimane il fulcro principale del nostro progetto, è nato questo nuovo percorso artistico.
Molti di noi sicuramente ti conoscono soprattutto per il tuo lavoro con i John Canoe ed è innegabile un tuo approccio stilistico molto distante. Come hai lavorato sui suoni per questo poggetto e come hai mutato il tuo modo di suonare?
In realtà a livello di set, non ho fatto cambiamenti particolari.
Sicuramente quello che è cambiato è stato il modo di suonare che ha portato ad una differenza di suono. Con i John Canoe posso sentirmi libero di spingere un po’ di più, essere “rock”, perché il genere lo richiede e soprattutto perché siamo in trio perciò sia la batteria che il basso devono essere solidi, presenti a livello di sound e mantenere il tiro. Con i MahDoh siamo cinque elementi quindi i toni si abbassano un po’ così da riuscire a convivere perfettamente in armonia.
Ognuno ha le sue parti e l’equilibrio riesce solo quando si suona in modo che queste si riescano a distinguersi bene, così da dare vita a quello che è il linguaggio sonoro che abbiamo scelto di rappresentare.
Se si “spinge” di più in momenti in cui non è richiesto, si perde l’identità collettiva.
Con i MahDoh come lavori sulle tue tracce di batteria? Preferisci scriverle con qualche software oppure sperimenti in sala di registrazione?
Decisamente in sala!
Nulla in contrario a lavorare con i software, mi è capitato un paio di volte, ma preferisco la condivisione in sala: confrontarsi, ascoltare le idee degli altri e provare anche solo un frammento del brano in loop per trovare la soluzione migliore.
I MahDoh portano fieri l’etichetta di “musica indie”. Cosa vuol dire musica indie specialmente applicata alla batteria? Secondo te ci sono dei tratti distintivi di questa musica? Quali sono i batteristi che maggiormente prendi a riferimento in questa proposta musicale?
“INDIE” è ormai diventata la seconda parola più usata al mondo dopo “ok”, deriva dalla parola independent. Un progetto indipendente è valido già solo per il duro lavoro che c’è dietro nel metterlo in pratica, essendo fatto con i soli mezzi di cui uno dispone, e trovo che questo abbia un valore aggiuntivo a prescindere dalla riuscita del risultato finale.
In relazione alla musica questo termine ultimamente ha trovato una nuova identità: da una parte continua a raffigurare un mondo musicale indipendente e underground, mentre dall’altra si è avvicinato a un’idea di sonorità nuova che riprende molto il Pop.
Perciò se parliamo di indie inteso come “nuovo genere musicale” a me non dispiace affatto: amo il pop, i suoni puliti, le melodie orecchiabili. La batteria indie riprende quelle sonorità degli anni ’70 – ’80 riproponendole con un sound più contemporaneo.
I batteristi che maggiormente prendo in riferimento sono quelli con cui ho iniziato a condividere le esperienze sul campo, perciò grandi amici prima di essere colleghi. Uno su tutti Francesco “Franz” Aprili batterista che stimo molto per il gusto musicale oltre che sonoro e Alberto Paone.
Con i John Canoe suonate molto all’estero. Come viene accolto il vostro gruppo all’estero e che percezione hanno della musica italiana? Quali sono le differenze sostanziali tra l’underground nostrano e le realtà degli altri stati? Come vi spostate ed organizzate per questi concerti? Anche con i MahDoh avete in programma date all’estero?
I John Canoe sono una band formata da tre caciaroni che hanno l’obbiettivo di divertirsi e “far festa” con qualsiasi pubblico si trovino di fronte, perciò devo dire che siamo stati accolti sempre molto bene in tutti i posti dove siamo andati, sia che fosse Svizzera, Francia, Olanda, Ungheria, Belgio o Italia. Credo che all’estero abbiano tanto rispetto per la musica italiana quanto ne abbiamo noi per quella straniera (se fatta in un certo modo ovviamente). Abbiamo molte realtà importanti italiane che cantano in italiano e che hanno un buon seguito anche all’estero.
La differenza sostanziale tra il nostro paese e l’estero è che l’ascoltatore italiano è molto più “composto” e attento all’ascolto del live rispetto agli ascoltatori esteri che si lasciano invece molto di più trasportare dall’energia del momento, di interazione con la band e della musica stessa, a prescindere se sia conosciuta e famosa o meno. La percezione che hanno è legata secondo me a quanto più uno è sincero, bravo sul palco, bravo a trasmettere quello che ha da raccontare, piuttosto che al fattore linguistico o tecnico musicale, cosa per noi italiani invece è molto importane.
Crescendo in un contesto libero da pregiudizi probabilmente l’underground internazionale è più libero di esprimersi come vuole, di osare, perché se fatto bene ha sempre una risposta positiva da parte del pubblico.
Per quanto riguarda i nostri viaggi, a seconda di quella che è la meta decidiamo come spostarci: per quelli molto lunghi siamo costretti ad affittare furgoni, sul quale carichiamo la nostra backline. Altrimenti, essendo un trio, abbiamo la fortuna di entrare tutti in una macchina, sacrificando qualche strumento (indovina quale?). Qualche volta ci è capitato di spostarci anche in aereo, esperienza da vere rock star! Viaggiare con i propri compagni di squadra è sempre emozionante, condividere esperienze e momenti nuovi è qualcosa che ti arricchisce sempre, ti fa crescere. Siamo molto fortunati.
Spero di poterlo fare anche con i MahDoh!
Entrambi i progetti sono figli dell’underground romano. Che fotografia ci consegni di questo genere in questo momento? Pensi che sia il principale fermento della musica odierna oppure lo vedi come un fenomeno che si sta spegnendo?
Viviamo in un momento di grande prolificazione musicale underground. Questa è una cosa molto bella secondo me; la gente ha voglia di creare, fare musica.
Però sono anche preoccupato perché la maggior parte di quello che si fa a volte ha poca ricerca e sincerità. Gli artisti di oggi sono spaventati, hanno paura di osare, di mettersi in gioco, di sperimentare, perché spaventati dal rifiuto dell’ascoltatore medio. Perciò ci si rinchiude in luoghi comuni sicuri, che permettono di “lavorare” con la propria musica.
Spero che questo aspetto cambi presto. Vorrei che la musica e l’arte in generale venissero usate per creare del nuovo, raccontare cose diverse in maniera diversa, per influenzare ed ispirare, invece che raccontare stessi punti di vista, con stessi linguaggi e sonorità.
Con i John Canoe proponete una musica dai chiari riferimenti alla musica garage-surf, ma mantenete un sound molto pulito e netto distanziandovi da quelli che sono i suoni canonici del genere. Come mai questa scelta? Ti ispiri a qualcuno nel pensare le tue parti di batteria o sound in generale?
Ci piace il rock, il punk, il garage, le sonorità “sporche”, grezze e l’attitudine schietta e diretta che ne deriva. Siamo cresciuti con questi ascolti. Però siamo anche figli di un’altra cultura, che vuoi o non vuoi ti influenza, ma che non abbiamo mai cercato di nascondere.
Come in ogni altra band, quello che si crea dal punto di vista della scrittura e della scelta del sound deriva inevitabilmente da ascolti musicali che ti influenzano; più cresci e maturi, più questi possono aggiungersi ai vecchi o cambiarli creando un “nuovo te”.
È una cosa abbastanza istintiva. Così lo è stato per noi e lo stesso vale per le parti o il sound di batteria.
Non abbiamo scelto consapevolmente di essere più o meno puliti rispetto a quelli che sono i canoni del genere, direi più che abbiamo cercato di rimanere noi stessi mantenendo quelli che sono i nostri gusti musicali.
Cosa rappresenta per te il suono e la sua ricerca? So che suoni anche altri strumenti, questo come influenza la tua concezione della batteria?
Il suono è qualcosa che sentiamo con le nostre orecchie e ognuno ha una propria sensibilità nel farlo così come il gusto nel riprodurlo.
Mi trovo spesso a parlare con colleghi batteristi che mi spiegano come, con una determinata pelle o piatto o tipo di legno, si avvicinano ad un suono che più gli piace o li rappresenta di più in quel momento. Sono affascinato da come già con il solo utilizzo di “attrezzature” specifiche ci si possa avvicinare a riprodurre o emulare un suono riconoscibile, famigliare (ad esempio suoni più o meno rock, jazz, funk ecc.).
Il suono però non è solo questo. Per me rappresenta qualcosa che viene più dal profondo, un prolungamento del nostro modo di pensare lo strumento ed il suono che ne fuoriesce. Montando lo stesso set di pelli, sulla stessa batteria con stessi piatti e stesse bacchette, io e te avremmo due suoni completamente diversi.
Questo perché il suono che ne esce viene da una concezione interiore del suono che vogliamo riprodurre, da un gusto di sound e sensibilità che ognuno di noi sviluppa in maniera diversa; così come il tocco con cui si suona lo strumento.
Ovviamente la ricerca sta nell’ascolto di differenti generi musicali, in modo da ampliare sensibilità e gusto e, con l’aiuto di attrezzature esterne (pelli, piatti, ecc.), di arrivare più velocemente ad un sound che però abbiamo già chiaro in testa, dentro di noi. Conoscere altri strumenti oltre al proprio penso sia fondamentale per ogni strumentista, per capire meglio qual è il ruolo di ognuno all’interno di un organico e riuscire ad essere più funzionali possibili gli uni per gli altri sia a livello di sound che di parti.
Tra pop e jazz
Ai tuoi lavori più pop, abbini anche una forte vocazione jazz. La tua propensione verso questo genere è una cosa innata oppure maturata nel tempo? Quali pensi che siano le principali differenze nei due stili? Quali sono i tuoi ascolti di riferimento in ambito jazz?
Penso siano un po’ entrambe le cose. Ho iniziato a suonare la batteria a 12 anni nella scuola popolare di musica di Testaccio, dove ho fatto la mia prima esperienza di musica d’insieme jazz, classe coordinata dal bravissimo trombettista Antonello Sorrentino.
Grazie a lui ho iniziato a conoscere i primi standard jazz e approcciarmi a questo nuovo stile musicale caratterizzato da molte regole e d’altrettanta libertà di espressione.
Ho iniziato a capire cosa volesse significare “struttura di un brano”, a come sentirsi liberi di improvvisarci sopra, sempre rispettandola, ed anche cosa sia l’interplay e l’importanza di ascoltare gli altri quando si suona.
Nel frattempo continuavo a fare le mie esperienze musicali anche al di fuori della scuola con gruppi pop, rock, funk. Poi il periodo punk, che mi ha accompagnato per tutti gli anni delle superiori, anni in cui conobbi quella che poi è diventata la mia migliore amica, nonché figlia di Cinzia Spata, una delle cantanti jazz più forti (secondo me) del panorama musicale italiano. Cinzia in quegli anni lavorava per i seminari estivi di Berklee a Umbria Jazz, perciò io e Ludovica ogni anno passavamo qualche giorno a Perugia dove assistevamo a concerti in piazza, all’Arena e nei vari jazz club che si animano di jam session in quel periodo. È in quelle estati e in quei mini club che ho capito veramente quanto il jazz mi piacesse.
Musicisti che si incontrano per la prima volta, salgono sul palco e suonano insieme come se suonassero da una vita.
Rimanevo lì tutta la sera con gli occhi fissi sul palco innamorato, estasiato da quello che succedeva, tanto che una sera Cinzia scherzando mi guardò e mi disse: “ma allora a te il jazz piace davvero?!”.
Perciò sì, direi che da una parte è maturato negli anni grazie ad insegnanti validi che me lo hanno fatto conosce ed apprezzare sempre di più ma che forse un po’ era già innato, senza saperlo, dentro di me. La principale differenza tra pop e jazz secondo me è che il jazz è incentrato sull’improvvisazione, il solismo, sulla ricerca di un suono proprio e riconoscibile, sul suonare parti scritte ma sempre in maniera diversa e personale perché liberi di esprimersi musicalmente a 360°. Il pop invece è incentrato su una scrittura che ha un inizio ed una fine, dove ogni nota, suono e dinamica sono scelti con cura e devono essere sempre rispettati perché al servizio del brano in questione.
Tra i miei ascolti di jazz principali c’è Chet Baker, uno dei miei trombettisti e cantanti preferiti in assoluto, per scelta di suono e lirica compositiva.
Amo moltissimo il jazz cantato, e oltre a Chet ci sono ovviamente Sarah Vaughan, Ella Fitzgerald, Dizzy Gillespie (e i suoi soli scat), Mark Murphy, Anita O’Day, Nancy King, Esperanza Spalding, Cinzia Spata….poi Coltrane, Wayne Shorter, Michel Petrucciani e uno dei miei trio preferiti, quello di Keith Jarrett con Gary Peacock e Jack DeJohnette.
Luogo comune vuole che i jazzisti non sappiano suonare altri generi al di fuori del proprio. Secondo te è del tutto falso oppure c’è qualche forma di verità?
Non so se sia un luogo comune ma prendiamo un esempio italiano su tutti: Roberto Gatto.
Jazzista affermato su scala mondiale, uno che sa cosa significhi la tradizione e che pure viene da una “formazione” progressive-rock (se non sbaglio da giovanissimo faceva parte di una cover band di Emerson Lake & Palmer…ma non vorrei dire una sciocchezza) oltre che fusion, cofondatore dei Lingomania, una delle più grandi band fusion italiana degli anni ottanta.
Sennò vogliamo parlare di Steve Gadd, Omar Hakim, Vinnie Colaiuta, Antonio Sanchez, Mark Guiliana, straordinari batteristi jazz ma non solo.
Credo sia giusto dedicarsi a quello che è il “proprio genere musicale d’appartenenza” per entrare meglio nel linguaggio e capirlo fino in fondo ma se si ascolta tanta musica e si è aperti a capire anche altro, penso si possa riuscire a suonare quello che si vuole.
La candidatura come “miglior batterista della scena alternative italiana”
Nel 2017 sei stato inserito dal MEI nella short list per votare il miglior batterista della scena alternative italiana insieme a nomi del calibro di Fabio Rondanini, Francesco Aprili e altri. Che effetto ti ha fatto e come hai accolto la notizia? Tu per chi avresti votato? Avresti inserito anche qualche altro nome?
Che mi hai ricordato!
È stata una bella sorpresa e un’emozione grandissima scoprire di essere stato inserito in quella lista.
Io ho votato per il mio amico e collega Franz Aprili perché, come già detto in precedenza, ho una grande stima di lui sia come persona che come batterista. Mi piacciono i progetti in cui ha lavorato e con cui continua a lavorare, il suo drumming pulito e le soluzioni ritmiche che ricerca per i suoi progetti.
Se non ci fosse stato lui avrei votato per il mio preferito della lista: Fabio Rondanini, persona ed artista che stimo più di ogni altro. Cultura musicale immensa che si sente in ogni colpo che da’ sul suo strumento.
Uso dei social
La scorsa volta parlando con Nicolò Di Caro, parlavamo della generazione che ha visto cambiare il modo di avvicinarsi alla musica. Ora molta informazione passa attraverso i social e Youtube, mentre una volta si andavano a scoprire i musicisti guardandoli dal vivo. Com’è il tuo approccio verso questa nuova tendenza?
Credo che in qualche modo noi facciamo parte della generazione che si è trovata nel mezzo, nel momento esatto in cui l’informazione si è iniziata a spostare verso il digitale. Abbiamo anche la fortuna di essere i figli e i nipoti di coloro che come dici tu “andavano a scoprire i musicisti guardandoli dal vivo” e che in qualche modo, ci hanno trasmesso l’importanza e la bellezza di andare a viversi un’esperienza come un concerto live, scoprendo nuove realtà musicali e ascoltandole dal vivo, che ti assicuro è tutta un’altra cosa.
Per come la vedo io i social o Youtube non intaccano lontanamente tutto questo ma anzi aiutano ad informarsi su quelle che sono le nuove tendenze del momento, perché pubblicizzate tramite video live, recensioni, interviste, post ecc. Queste piattaforme hanno grandi potenzialità ma ovviamente tutto sta nel come si utilizzano.
Potremmo dire che sono un mezzo. Un po’ come può essere lo studio del proprio strumento. Possiamo dedicare tutta una vita a chiuderci esclusivamente sull’approccio tecnico studiando questo, quello o quell’altro ma poi il mondo vero è lì fuori: suonare con altre persone, confrontarsi, condividere, fare esperienze e rendere musicale quello che si è appreso sui libri, sviluppando così un gusto personale.
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