Tempo addietro mi sono recato a sentire gli Oportet dal vivo presso Blutopia. Non li conoscevo affatto. E’ stato un concerto bellissimo per intensità e perchè ha saputo soddisfare il mio bisogno di emozione, di ricerca, di stupore. In particolare la capacità del batterista del trio mi ha calamitato. Un grande devozione alla sperimentazione e alla ricerca sonore.
Ho deciso di partire da questo progetto per portare avanti una conversazione su diversi aspetti e risvolti dei suoi lavori.
Intervista a Stefano Costanzo
Ciao Stefano, ti ho visto recentemente all’opera con il tuo nuovo progetto Oportet. Un progetto musicale veramente molto meritorio sia per l’eleganza delle composizioni, sia per l’appassionata ricerca che vi si cela dietro. Arrangiamenti molto ben congegnati e mai banali ed un grande affiatamento tra voi tre. Come nasce questo progetto ?
Innanzitutto grazie per essere venuto al concerto e mi fa piacere che ti sia piaciuto.
Dunque Oportet nasce grazie alla mia amicizia con il bassista napoletano Umberto Lepore. Vedendoci spesso per passare del tempo insieme, una volta gli feci sentire dei miei pezzi che avevo scritto nel corso dell’ultimo anno. Devi sapere che in quel periodo vivevo in una casa con un pianoforte a muro. Proprio lì sono nati la maggior parte dei brani che poi avremmo suonato con Oportet. Ad Umberto piacquero tantissimo i pezzi e mi propose come pianista Marco Fiorenzano. Cominciammo a provare e andò molto bene e continua sempre meglio. Suonavamo i brani a memoria scandagliando ogni minima parte. Poi un mio amico musicista di Roma ci invitó a suonare in un bellissimo posto a trastevere e da lì abbiamo continuato.
In questo progetto sei anche il principale arrangiatore dei pezzi. Come nasce la stesura di questi brani così particolari ? Componi anche le parti degli altri strumenti ?
I brani oltre ad essere tutti miei, sono anche arrangiati da me.
In genere , le idee dei brani nascono su pianoforte, ma anche su chitarra a volte. In seguito le risuono a Marco e Umberto diverse volte finché i brani non vengono imparati a memoria. Poi mi metto alla batteria e suonando i brani mi vengono in mente degli arrangiamenti che comunico a voce e in tempo reale.
Ormai la musica che scrivo per Oportet è pensata per quelle persone.
Ascoltandoti uno dei tuoi tratti più distintivi è la tua grandissima ricerca del suono mediante l’impiego di più percussioni usate in maniera molto personale. Cosa rappresenta per te il suono e la sua ricerca ?
Sì, effettivamente ho messo particolare attenzione sul “suono” che per me rappresenta quasi tutto in musica. Spesso i musicisti di oggi, colpevoli forse forse i maestri di musica che li seguono, mettono più attenzione sull’aspetto teorico e fintamente virtuosistico dello strumento, perdendo di vista la cosa per me tra le più importanti e cioè il “timbro” determinato dal “gesto”.
Hai mai trovato difficoltà o diffidenza a proporre il tuo modo particolare di suonare ?
Certo! Ho sempre trovato e trovo tuttora difficile proporre il mio modo di suonare. Stiamo parlando dell’Italia, un posto in cui solo adesso si cominciano a conoscere Parker e Coltrane, che se suonassero adesso, il pubblico italiano non li avrebbero fischiati, ma direttamente linciati. Parlo dei giovani musicisti eh, non degli ascoltatori. I giovani non conoscono nemmeno la scena attuale della musica che studiano e nonostante ciò, sparano giudizi e sentenze. Ti lascio immaginare un batterista come me come può essere definito se non in una parola: pazzo!
Me lo dicono spesso, anche in modo simpatico. La cosa mi fa molto riflettere su questo: se una persona o un musicista è libero e fa le cose senza sottomettersi, rispettando se stesso e la musica che fa, tutto ciò fa di lui un pazzo agli occhi degli altri ? Purtroppo di questo ne so qualche cosa.
Come gestisci il tuo suono e la scelta degli strumenti da usare ? Utilizzi particolari trucchi per l’accordatura ? Con gli Oportet ti ho visto suonare con un set molto compatto come numero di pezzi. Scelta voluta o più dettata da fattori esterni ?
Sono cresciuto suonando nei centri sociali e spazi occupati, o sale sgangherate di amici quindi mi sono sempre dovuto adattare allo strumento che trovavo.
Questa cosa mi è servita molto a cacciare il suono dalle mani e legarmi poco allo strumento. Non ne capisco nulla di marche quindi ho imparato a sedermi dietro lo strumento e provare a far uscire il suono che ho in testa. Saranno allucinazioni mie, ma il più delle volte pare che ci riesca.
Per questo ho ridotto lo strumento veramente all’osso, con cassa, rullante, timpano, un ride e un hi-hat.
Invece parlare di accordatura su uno strumento come la batteria che è storicamente privo di suoni definiti, mi sembra un po’ innaturale. Molti batteristi, specie quelli che suonano jazz, la accordano ed anche in modo a mio avviso brutto come suono, tendendo molto le pelli. Io cerco comunque un suono più scuro e cupo quindi tendendo meno le pelli.
Hai usato un rullante vintage della Hollywood. Che rapporto hai con i strumenti vintage ? Quale pensi che sia la caratteristica peculiare di questi strumenti ?
Uso in genere quello che costa poco e che abbia un suono che mi piace, poi comunque modifico il suono mettendo i miei oggetti sopra le pelli, cambiandone inevitabilmente il suono. Come ti dicevo prima, non ne capisco granché di marche e caratteristiche.
Mentre ti ascoltavo mi venivano in mente dei rimandi a Jim Black con gli AlasNoAxis oppure Martin Brandlmayr con i Radian. T’ispiri effettivamente a questi musicisti oppure i tuoi riferimenti sono altri ?
Non conosco i Radian, ma li ascolterò subito. Invece Jim Black lo conosco e mi piace. Non tutto ad essere franco. In parte vaga la sua musica ha ispirato la musica di Oportet ma i riferimenti sono svariati e non basterebbe questa intervista ad elencarne una minima parte.
Di sicuro più che Black mi sono ispirato in ambito jazzistico ovviamente al trio di Vijay Iyver, all’impro folk dei miei amici norvegesi Monkey Plot, e alla “song form” di Richard Dawson e Bill Callahan e soprattutto Nick Drake. Altro tipo di musica che ascolto tantissimo e che credo ispiri anche molto la musica che faccio con Oportet e in generale, è la musica sacra e antica come i “madrigali” di Gesualdo da Venosa, Monteverdi, Legnani.
Luogo comune vuole che i jazzisti non sappiano suonare altri generi al di fuori del proprio. Secondo te è del tutto falso oppure c’è qualche forma di verità ?
Non so cosa pensare in merito ai jazzisti. Io non ragiono per generi e quindi per quadratini. Non mi sono mai posto di saper suonare un genere specifico in modo puro. A me interessa la sporcizia per cui non so dirti cosa può viversi un jazzista.
Nel dopoguerra il jazz rappresentava l’avanguardia e molti locali proponevano questa musica avanguardistica ad un pubblico non ancora preparato, ma molto affamato di voler scoprire. A distanza di molti anni, la situazione sembra essere ribaltata dove assistiamo ad un pubblico molto preparato ma poco propenso alla scoperta del nuovo. Secondo te è così o vedi qualche barlume di speranza ? Il pubblico è ancora affamato di ricerca sonora o novità ?
Il jazz secondo me era visto e avvertito come qualcosa di nuovo, e quindi come il nemico perché da sempre ciò che non si conosce spaventa. Il pubblico crede di avere bisogno di trovare conforto e consolazione nell’arte in generale. Invece io credo che nel suo intimo, senza nemmeno avere consapevolezza di ciò, ricerchi sempre un qualcosa che lo travolga, che lo spaventi. Quando parecchi anni fa cominciammo a portare questo tipo di improvvisazione di tipo più radicale in giro, la gente spesso rideva e sembrava considerarci come degli psicopatici. Con il tempo invece non solo non ridevano più ma erano sempre più incuriositi e diverti. Spesso forse perché ascoltare un certo tipo di musica, più viscerale, non ha bisogno di avere una particolare conoscenza in materia proprio perché non c’è nulla da capire ma tutto da vivere.
Come sta succedendo sempre più a livello mondiale, la vostra proposta jazz pare strizzare l’occhio alle sonorità più electro, ma la interpretate in una maniera vostra molto originale dove qualsiasi effetto sonoro viene lavorato sempre da una sorgente acustica. Cosa o chi ti ha ispirato questo approccio nella scelta dei suoni ?
Io non sono un purista perché mi piace molto mischiare le carte in tavola. Penso che gli stili che mischi si debbano conoscere ed esplorare fino alle loro estreme conseguenze. Nel 1999 diedi vita ai “Tricatiempo” che inizialmente era un duo di elettronica e che dopo poco ha indossato le più svariate vesti, mischiando i più disparati generi tra loro, passando anche nella fase in cui abbiamo fuso il jazz contemporaneo alla musica elettronica.
Oggi per i jazzisti usare elettronica, anche se in maniera dozzinale e senza alcuna ricerca ma solo per moda del momento, è abbastanza normale. Eppure dieci o quindici anni fa eravamo in pochissimi a farlo, e non tutti italiani sicuramente.
Gli Oportet sono un progetto autoprodotto. Che consiglio dai agli artisti che si vogliono autoprodurre ?
Più che dare consigli, posso dirti cosa ha spinto me e quindi anche Oportet a scegliere di far uscire cose autoprodotte totalmente. Sicuramente nasce da due necessità: la prima è di tipo economico, dato che comunque le etichette chiedono non pochi soldi, a meno che non sei ovviamente un “nome” che porta visibilità e guadagno alla etichetta stessa, prendendosi almeno metà dei diritti dei brani, imponendoti spesso la copertina e spesso anche la direzione artistica per poi non darti nulla in cambio, ovviamente non è sempre così; il secondo motivo è sicuramente per accelerare i tempi. In genere dalla registrazione del disco all’uscita dello stesso passa un tempo infinito che serve a proporre il lavoro alle varie etichette, e nel frattempo la musica registrata diventa anacronistica. Almeno per me queste sono state le motivazioni non avendo mai avuto un contratto o robe del genere.
Hai suonato anche con Gegè Telesforo. Come è nata questa collaborazione e come hai plasmato il tuo stile sulla sua musica ?
Sì, ho lavorato con GeGè Telesforo e Dario Deidda per una stagione. Venni contattato da GeGè e fu un piacere per me sapere che era incuriosito dal mio modo di suonare tanto da inserirlo nel trio di Dario Deidda del quale aveva prodotto un disco da solista. Mi chiese proprio di non modificare il mio modo di suonare e di essere spontaneo e naturale. Ovviamente così feci ed è stato divertentissimo.
Sei cresciuto a Napoli. Questa città come ti ha cresciuto musicalmente ed artisticamente ? Ti sei molto spesso spostato sull’asse Napoli-Roma. Quali sono le maggiori difficoltà dell’ambiente musicale romano e le differenze con l’ambiente napoletano ?
Quando iniziai a suonare a Napoli (sono cresciuto a Capua) avevo venti anni circa ed erano i primi anni duemila. Devo dire che se da un lato c’erano un botto di musicisti che mi interessava conoscere, dall’altro noi giovani musicisti dell’epoca, ci siamo ritrovati circondati da una serie di musicisti più grandi che oltre a non essere così bravi secondo me, hanno provato ad esercitare una pressione negativa su di noi per paura che gli potessimo levare la “polpetta dal piatto”.
Ci siamo ritrovati chiaramente da soli, senza punti di riferimento e soprattutto continuamente criticati per quello che facevamo. Oggi, che suono spessissimo con ragazzi anche molto più giovani di me, la più grande risposta a questo atteggiamento mediocre è stato trattare alla pari i giovani e i giovanissimi e non ripetere le stesse cose che ho subito io sugli altri. Vivo ancora a Napoli ed è il posto dove ho scelto di vivere specie perché le cose, nel bene e nel male che vivo qui quotidianamente sono un un nutrimento che non troverei altrove.
Amo profondamente questo angolo di mondo e la sua gente.
Come hai iniziato a suonare la batteria ? Quali sono stati i tuoi idoli e punti di riferimento ?
Inizialmente suonavo il piano, ma i miei genitori mi comprarono un tamburo di plastica al mercato ed io lo suonai fino a romperlo. Mi rimasero quindi le bacchette con le quali percuotevo ogni cosa soprattutto il divano. Questo dava molto fastidio a mio padre, il quale mi comprò una batteria giocattolo per Natale. Purtroppo non andò benissimo. Misero la batteria in macchina per non farmela scovare prima del 25 dicembre, ma vi fu un incidente e la batteria distrutta.
Ovviamente io ero disperato e senza regalo, quindi i miei genitori dopo Natale, con i saldi, mi comprarono una batteria “vera” ! Ti lascio immaginare l’emozione quando la vidi e la sensazione di gioia mista quasi a paura che provai quando diedi il primo colpo di cassa! Avevo cinque anni ed ancora oggi questo strumento misterioso mi fa sentire come un bambino che gioca ma in modo serissimo come solo i bambini sanno fare.
È solo uno strumento.
È una porta.
È qualcosa di familiare, è davanti ai miei occhi da sempre.
A volte la odio e non la suono tutti i giorni.
È una delle cose della vita, né di più né meno, a volte desidero ferocemente di suonarla e altre volte non la sopporto.
È uno scudo e non uno sfogo come molti immaginano.
Hai studiato al conservatorio. Pensi che questo percorso sia indicato per chi voglia studiare batteria e che formi adeguatamente, o è semplicemente un valido “pezzo di carta” ?
Certo! Da diversi anni suono in solo.
Da anni mi capita di esibirmi da solo con la batteria. Una batteria ridotta quasi all’osso (stesso e identico set che utilizzo in tutte le situazioni ed anche al concerto che hai ascoltato), che spesso è difficilmente riconoscibile, sempre grazie all’ausilio di tecniche estese dello strumento, confondendo totalmente l’ascoltatore, che spesso è convinto che utilizzi del materiale elettronico quando invece utilizzo solo ed esclusivamente strumenti acustici. Cerco di confondere, un po’ come nella pittura si usavano false prospettive per far sembrare le chiese più grandi o più lunghe, così provo a farlo io con la batteria, attraverso la mimesi di suoni elettronici, ambientali ecc. un imbroglio insomma.
Se prima le collaborazioni avvenivano solo a livello locale, ora si ha la possibilità di registrare e collaborare anche a distanza. A te è mai capitato ? Allargandosi le possibilità, si allarga anche la concorrenza. Perché qualcuno dovrebbe scegliere te come batterista di un progetto ? Cosa pensi che ti possa rendere unico?
Credo che l’internet abbia cambiato ogni approccio verso ogni tipo di cosa. Credo quindi che anche l’approccio alla musica sia cambiato. Per la generazione come la mia è un po’ un miracolo poter accedere a tutto, o quasi tutto ciò che cerchi. Fare ricerca prima era davvero difficile, pensa a Demetrio Stratos che lavoro ha dovuto fare per ascoltare musiche provenienti da angoli sperduti del mondo. Oggi credo che sia internet che il sistema in cui veniamo indotti a comportarci abbiano influenzato radicalmente il modo di approcciare alla musica ed anche il tipo di rapporto tra chi suona. Se si pensa che oggi tra i ragazzi si dice: “andiamo a produrre” è non più: “ vediamoci, andiamo a provare”…mi sento un po’ mio nonno a parlare così ma credo sia vero purtroppo. Però è anche vero che spesso hai la possibilità di contattare con facilità musicisti che non vivono vicino a te o scoprire musicisti grazie ai social.
Ricordo per esempio che con “My Space” spesso nascevano collaborazioni tra musicisti distanti tra loro. A me è capitato, anche recentemente, di essere chiamato a suonare perché mi avevano scoperto su Facebook ad esempio. Penso che qualcuno può, se vuole chiamare me a suonare perché ho scelto di suonare in un modo che non somiglia a nessun altro batterista e che col tempo, con tutti i miei difetti e carenze, sono arrivato ad avere un suono abbastanza riconoscibile.
Cosa rappresenta per te l’arte e come la ricerchi ? Questa ricerca influenza il tuo modo di suonare o d’intendere la vita ?
La parola “arte” è ormai talmente abusata che non capisco nemmeno più cosa voglia dire. Credo sia la rappresentazione del simbolo quindi non so nemmeno più se mi interessa. Se deve essere un qualche cosa che crea comunque una gerarchia tra chi la capisce perché “ha studiato” è chi invece non la comprende, allora non mi interessa. Il concetto di arte è come il concetto dì “bellezza” (altro termine molto usato grazie a quel filmettino servile italiano), cioè un qualche cosa che col tempo è stato appiattito fino a diventare una delle tante opinioni, nei quali si ritrovano un po’ tutti quelli che hanno bisogno di sentirsi intrattenuti per creare una sorta di sospensione dalla routine. A me più che arte e bellezza interessa la vita e la crudezza seppur non sempre consolatoria, per cui ricerco e cerco di prendere ispirazioni dalle cose che mi stanno attorno, dagli amici, dalle persone incontrate per caso…in una parola: dalla vita.
Per questo motivo tutto ciò ha influenzato e muove ancora oggi tutto il mio vivere. Rinunciando spesso a tanti bisogni che poi ho imparato a riconoscere come inutili. Per me suonare vuol dire vivere e viceversa quindi altro non so.
Com’è cambiato il lavoro ed in che direzione si muoverà il lavoro del musicista in futuro ?
Io non considero la musica un lavoro, è qualcosa che accade nella mia vita per caso da sempre. Non so da dove viene e non so dove andrà, so solo che succede, così, per caso, come un volo di uccelli, senza un perché. Poi ci guadagno e mi fa sopravvivere in termini economici, ma con alti e bassi, perché di certo non è il posto in banca o una attività commerciale, ma molti se la vivono così ed infatti si sente dalla loro musica.
Ci sono diverse cose in cantiere: oltre il duo che ho da diversi anni con Guido Marziale (aka Eks) all’elettronica “Cadaver Mike” e al mio solo di batteria, Oportet, il duo che ho con lo storico contrabbassista Roberto Bellatalla, sto lavorando con una delle voci più interessanti di oggi che è Camilla Battaglia e con i Klippa Kloppa.
Con Camilla ho un duo con il quale faremo un piccolo tour a fine febbraio in Italia dopo aver recentemente suonato a Berlino.
Con i Klippa Kloppa invece, attivi da circa venti anni, band storica della scena underground italiana, sto lavorando alla stesura del nuovo disco e alla preparazione di nuovi concerti.
E poi tante e tante altre cose, insomma non stiamo mai fermi.
Ti vorrei chiedere qualcosa riguardante la parte più lavorativa di questo lavoro. Come elabori il tuo cachet rispetto al lavoro proposto ? C’è sempre trasparenza in questo mondo oppure talvolta ti sei sentito sfruttato ?
Mah! Per quanto riguarda questo argomento stenderei un velo pietoso. Posso solo dire che dipende da dove suono e per chi e cosa suono. Posso suonare gratis se questo serve ad aiutare qualcuno o sostenere degli spazi, ma spesso per questioni di convenienza i musicisti vengono sottopagati dai “localari” o da organizzatori di festival ecc per paura di non essere più chiamati in futuro o considerati fuori dal giro. Io non mi sono mai fatto sfruttare in questo senso : infatti in questo ambiente non vengo visto benissimo secondo me, perché chi ha rispetto di ciò che fa, specie in questo campo, o è un pazzo o un esaltato.
Ci sono mai stati momenti in cui volevi lasciar perdere ?
Certo! Anche adesso! Se sei spinto dal desiderio di tuffarti nel vuoto ci saranno anche momenti in cui un po’ di paura ti viene e magari vuoi lasciar perdere. Il fatto forse di non avere mai avuto una “sicurezza” in questo campo per me forse è stato un bene perché mi ha spinto a vivermi sempre la musica nello stesso modo di quando avevo sedici anni, con quella ferocia tipica di quegli anni, ma ovviamente ne hai quasi quaranta e alle volte è davvero difficile, specie se tutto ciò spesso ti porta a essere fuori dal mondo e quindi anche molto solo. Credo che la solitudine e il gelo, come diceva Eduardo De Filippo, siano una condizione necessaria per chi crea.
Sei te in prima persona che ricerchi nuove collaborazioni oppure aspetti che le occasioni si presentino da sole ?
Entrambe le cose.
Da quando ho 18 anni scrivo musica e ho cominciato a mettere insieme persone da quando ero molto giovane. Le “chiamate” sono arrivate più in avanti.
Sei un maestro di batteria. Quali valori cerchi di dare ai tuoi allievi ? Quali metodi consigli e come i tuoi maestri ti hanno influenzato in questo tuo lavoro ?
Non mi sento un maestro! Dico quello che ho imparato … infatti non ho molti allievi.
Quello che cerco di trasmettere non sono tanto le nozioni di tecnica o teoria ma il fatto di cercare il proprio suono, la propria voce e non scimmiottare gli altri. Non ho un metodo e con ogni allievo mi pongo in modo empirico. Ho lavorato con i malati mentali e devo dire che la cosa mi piace molto. Sento che in quel caso tramettere la musica abbia un senso e un valore molto più elevato.
Hai qualcosa che ritieni essere la tua firma sonora per cui qualcuno ti può facilmente riconoscere ? Cosa rappresenta per te il suono ?
Il suono per me è tutto, forse questa cosa è stata già detta in questa intervista. Noto che tanti batteristi giovani ad esempio imitano e basta. Imitano le cose che magari qualcuno prima di loro ha avuto il coraggio di suonare per primi e quindi di dire in quel modo, senza cercarne uno proprio. Quando cominciai a suonare in questo modo, tanti batteristi e non mi criticavano addirittura, oggi li vedo suonare anche a loro così e mi viene da ridere perché è sempre la stessa storia che vedo ripetersi. In pochi rischiano e che siano benedetti, altrimenti avremmo una marea di fotocopie, tutti uguali.
La mia firma quindi credo stia proprio nel suono e nella modalità.
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